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Apocrifi

Scritti che non fanno parte del canone biblico, ma che rivendicano una autorità sacra pari o anche superiore a quella dei libri canonici:
- Turribio di Astorga (480 ca),
- Decreto gelasiano (490 ca),
- Lista dei sessanta (sec. VII).
Antico testamento:
- Libro dei Giubilei (sec. II a.C),
- Libro di Enoc (etiopico, sec. II a.C., e slavo),
- Testamenti dei dodici patriarchi (II a.C.-III d.C.),
- Oracoli sibillini (I a.C.-IV d.C.).
Nuovo Testamento:
- Protovangelo di Giacomo o Storia della natività di Maria,
- Vangeli degli ebrei, degli ebioniti, dei nazarei,
- Vangelo di Tomaso,
- Memorie di Nicodemo o Atti di Pilato,
- Storia di Giuseppe falegname,
- Atti di Pietro, di Paolo, di Andrea, di Giovanni, di Tomaso,
- Apocalisse di Paolo.
Gli scritti dell'Antico Testamento che i cattolici chiamano apocrifi sono detti pseudoepigrafi [libri dal falso titolo] dai protestanti, e quelli che i cattolici chiamano deuterocanonici sono detti apocrifi dai protestanti.

Testimonianze non-cristiane (fonti ebraiche, siriache e latine) sul Gesù storico

1) Flavio Giuseppe, storico ebreo, Antichità giudaiche XVIII,63-64 e XX,200;
2) un brano del Talmud babilonese, trattato Sanhedrin (sigla bSanh 43A);
3) Mara bar Sarapion, filosofo pagano di origine siriaca, in una lettera al figlio;
4) Caio Plinio Secondo (Plinio [il Giovane]) lettera a Traiano (Epistola 10,96);
5) Publio Cornelio Tacito, Annali 15,44,2-5;
6) Gaio Svetonio Tranquillo, Vita di Claudio 25, in Vita di dodici Cesari.
[Che Gesù-Yeshua sia esistito è quindi un dato storico sicuro, che nessuno studioso serio nel XXI secolo mette più in discussione. - Vito Mancuso, Io e Dio, Garzanti 2011]

50 - 59 d.C.

Vangelo
[o evangelo, dal greco eu anghelion = indica anticamente la gratificazione data ad un messo per aver portato una buona "novella"]

I vangelo sinottico [secondo la tradizione]

Come tutte le testimonianze gli attribuiscono, nel…
[50 d.C. ca], l'evangelista Matteo-Levi,
[ha due nomi come è uso frequente tra i Giudei: Matteo (corrispondente al greco Teodoro) e Levi)], pubblicano (riscuote cioè le imposte), proveniente da una borgata sul lago Tiberiade chiamata Cafarnao, scrive "quasi certamente" in ebraico [termine che sta ad indicare molto probabilmente l'aramaico] il primo vangelo sinottico [o evangelo, dal greco eu anghelion, termine che indicava anticamente la gratificazione data ad un messo per aver portato una buona "novella" ed ora usato nel cristianesimo delle origini per significare l'annuncio della slavezza del genere umano per merito di Gesù], dopo aver abbandonato tutto e seguito la chiamata del maestro.
Tradotto abbastanza presto in greco, come si può intuire dalle persone a cui e destinato (Palestinesi), questo primo vangelo intende dimostrare che Gesù è proprio il Messia annunciato nel Vecchio Testamento e atteso dai Giudei.
[Questo vangelo di Matteo si compone di 18.278 parole greche.]
Secondo il tedesco Carsten Peter Thiede, i tre frammenti di un codice del Magdalen College di Oxford contengono brani del capitolo 26 di Matteo, databili tra il 40 e il 70 d.C..

compendio da Gianfranco Ravasi
1994, febbraio, Oxford: lo studioso tedesco Carsten Peter Thiede, la cui moglie è inglese, professore di "wissenschaftstheoretische Grundlagenforschung" di Paderborn, studiando i tre frammenti (il più ampio dei quali misura 4,1x1,3 centimetri: su entrambi i lati dei frammenti si leggevano frasi greche del capitolo 26 di Matteo) del Papiro Magdalen greco 17 o P64, donato al collegio Magdalen di Oxford dal reverendo anglicano Charles Bousfield Huleatt (1863-1908), scopre che quei frammenti, relegati dagli studiosi alla fine del II secolo erano da anticipare di molto, anzi erano da ricondurre oltre quella soglia fatidica del 70 d.C. [cioè sono stati scritti prima del 70 d.C.] considerata dagli esegeti come il terminus a quo per collocare cronologicamente la redazione di Matteo.
[Charles Bousfield Huleatt (1863-1908), M.A., Cappellano a Luxor (1893-1901), perito nel terremoto di Messina (1908) mentre ricopriva in questa città l'incarico di Cappellano, durante il suo ministero pastorale in Egitto si era imbattuto in questi tre frammenti di papiro].
1994, vigilia di Natale, il giornalista Matthew D'Ancona pubblica sul «Times» di Londra la fatidica notizia: "Un papiro, ritenuto il frammento più antico del Nuovo Testamento, è stato ritrovato in una biblioteca di Oxford".
1995, delle sue ragioni lo studioso tedesco dà conto in un articolo di otto pagine apparso sulla «Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik».
1996, pubblica il libro:
Carsten Peter Thiede, Testimone oculare di Gesù (1996, scritto in collaborazione con Matthew D'Ancona, Piemme)

Per corroborare le sue asserzioni Thiede sostanzialmente adduce tre argomenti:
- a) la grafia sarebbe simile a quella dei papiri greci della ormai celebre settima grotta di Qumran presso il mar Morto; in particolare si rimanda al notissimo 7Q5, un frammento con venti lettere (dieci delle quali lesionate) disposte su cinque righe e identificate come parte del testo evangelico di Marco (6,52-53) dal gesuita José O' Callaghan, identificazione osannata da alcuni e deprecata da altri. Ebbene, quello e gli altri diciassette frammenti della grotta 7 di Qumran sono certamente anteriori al 68, data della distruzione di quel 'monastero' giudaico da parte dei Romani. Analoghe similitudini Thiede troverebbe con papiri di Ercolano, anteriori al 79, data dell'eruzione del Vesuvio, e col manoscritto di cuoio dei profeti minori biblici di Wadi Khabra, anteriore al 73, anno della caduta della fortezza ebraica di Masada, sempre sotto le legioni romane.
- b) l'uso giudaico di abbreviare i nomi sacri' che, per Thiede, sarebbe stato imitato dai cristiani prima del 70: effettivamente nei papiri in questione si trova un IS per Iesous e un KE, Kyrie, "o Signore!".
- c) la scelta di allestire codici scritti in recto e verso da parte dei cristiani prima del 100.
I due ultimi argomenti sono evidentemente fragili perché al massimo indicano un terminus a quo: l'abbreviazione dei 'nomi sacri' e il ricorso alla forma del codice (cioè di una specie di quaderno o libro e non di rotolo) per trasmettere i testi evangelici sono continuati anche nel II secolo.
L'unico argomento da allegare rimarebbe il primo, quello paleografico, cioè la somiglianza di scrittura coi manoscritti di Qumran e alcuni indizi ulteriori, come un errore dello scriba nella parola "Galilea" e tre varianti testuali che rifletterebbero scelte più arcaiche e vicine all'originale. Per quanto riguarda la grafia lo stesso Thiede già nell'articolo sopra citato era costretto a riconoscere che "le caratteristiche della scrittura trovata in questi ambiti poté continuare anche dopo quella data, verso la fine del I secolo e forse anche più tardi". Ancora una volta non avremmo la prova che i frammenti del Magdalen sono di quel periodo ma che quel periodo è il terminus a quo e i testi potrebbero essere anche della "fine del I secolo e forse anche più tardi".
L'errore scribale e le varianti sono state affrontate e giudicate minuziosamente da uno dei principi della paleografia e della papirologia, Emile Puech, del CNRS francese, in un saggio apparso sulla prestigiosa «Revue Biblique» (1995, pp. 570-584) della famosa École Biblique di Gerusalemme e la sua conclusione è lapidaria: "Il papiro Magdalen non ci insegna nulla a proposito di una copia di Matteo del I secolo d.C. e non conferma in nulla l'ipotesi di Thiede riguardo a Marco che non può essere in nessun modo identificato in 7Q5".
Sulle stesse pagine a rincarare la dose contro il celebre papiro 7Q5 (e quindi indirettamente anche contro il papiro Magdalen) entrano in scena due grandi maestri dell'esegesi neotestamentaria M.-E. Boismard e Pierre Grelot (pp. 585-591).
Ma c'è un'altra questione, di natura più squisitamente esegetico-teologica, … si tratta del rapporto tra storia e kerygma nei Vangeli.
Sia ben chiaro: è rilevante ai fini storici una datazione più alta della redazione dei testi evangelici rispetto a quella comunemente ammessa dagli studiosi (dopo il 70). Eppure non è per nulla decisiva ai fini storiografici e soprattutto esegetici. Non lo è necessariamente in sede storica perché di per sé l'antichità e persino la contemporaneità e la testimonianza oculare non sono automaticamente garanzia di autenticità, al quale dev'essere vagliata sempre con una specifica criteriologia che è appunto applicata anche ai Vangeli da anni. Non è, poi, decisiva l'antichità dei Vangeli in sede esegetico-teologica. E qui dobbiamo dire che, se Thiede ha ragione di lamentarsi per il modo sbrigativo e non accurato con cui alcuni neotestamentaristi hanno considerato le sue argomentazioni papirologiche, è altrettanto vero che questi ultimi hanno molto di che lamentarsi per il modo sbrigativo, non accurato e parziale con cui egli affronta in questo libro la discussione sul genere dei Vangeli e sul relativo rapporto tra storia e fede.
Ora, in qualsiasi data si vogliano collocare gli scritti evangelici, essi non cessano di essere 'Vangeli' , cioè "buone notizie", nei quali gli eventi storici non sono raccolti per ragioni storiografiche bensì per finalità kerygmatiche. L'intreccio tra storia e fede è, quindi, inestricabile perché è proprio del genere adottato; la storia è necessaria ma non sufficiente per spiegare i Vangeli, sia che essi siano stati composti nel 50 sia che siano apparsi dopo il 70. Le memorie storiche di Gesù e su Gesù sono offerte a noi illuminate da una luce che piove dall'alto, cioè dall'esperienza pasquale. Conservare l'equilibrio senza precipitare nel fideismo gnostico bultimanniano ma anche senza scivolare nel razionalismo storicistico, apologetico o critico, è come camminare su un crinale verso cui i due versanti - quello della storia e quello della fede - convergono e si incrociano. Proprio come accade nell'Incarnazione, cioè in Gesù Cristo, uomo storico e figlio di Dio nella sua identità personale unitaria. Thiede immagina altre cose suggestive sulla scia della sua ipotesi: il papiro Magdalen avrebbe potuto essere letto e tramandato dai "cinquecento fratelli" che videro il Signore risorto secondo quanto riferisce Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (15,6); rispolvera gli Atti di Pietro, un apocrifo della fine del II secolo che raffigura l'Apostolo mentre incontra nella casa romana del senatore Marcello un gruppo di cristiani che "leggono il Vangelo", forse la pagina della Trasfigurazione (ma Ireneo nel suo Adversus Haereses III, 1, 1 scrive che solo "dopo il decesso di Pietro e di Paolo, Marco, discepolo e interprete di Pietro, ci ha trasmesso ciò che Pietro aveva predicato").
Ebbene, ipotesi per ipotesi e dato e non concesso che 7Q5 sia un testo marciano e che, il Papiro Magdalen P64 sia così antico, si potrebbe pensare a essi come a una duplice testimonianza di quella tradizione pre-evangelica che è stata profondamente studiata dagli esegeti e che comprendeva, sì, una predicazione orale ma anche quasi certamente l'apparire di prime sintesi o 'schede' evangeliche (si pensi all'ipotesi tedesca della Quelle o "fonte" che avrebbe raccolto già prima dei Vangeli canonici una serie di loghia o 'detti' di Gesù).
E ciò che ha fatto balenare il citato Pierre Grelot quando scriveva: "Tra l'epoca della semplice tradizione orale e quella in cui i libretti evangelici sinottici furono completati nel loro stato attuale ci fu uno studio nel quale l'annunzio orale del Vangelo a opera di predicatori cristiani, che non avevano tutti seguito Gesù durante il suo ministero pubblico, fu certamente aiutato da 'promemoria' scritti, che era facile portare con sé, naturalmente scritti su papiro. Era agevole per le comunità fondate in diversi ambiti della Giudea e della Galilea conservare delle copie".
Forse si potrebbe pensare a questi 'promemoria' di fronte ai frammenti studiati da Thiede, sempre però dato e non concesso che le sue ipotesi siano ineccepibili.

1996, Giugno, Risposta a Gianfranco Ravasi di Carsten Peter Thiede
È stato detto che gli studiosi del Nuovo Testamento sono i soli studiosi dell'antichità ai quali non piace sia detto che i loro documenti sono antichi e autentici. Questo è un problema non per i papirologi o gli storici, ma per gli studi sul Nuovo Testamento.
I papiri, i più antichi manoscritti disponibili, sono ingredienti importanti della ricerca scientifica per stabilire le origini e la tradizione di un testo dell'antichità classica. A questo riguardo, i papiri del Nuovo Testamento non sono differenti dai papiri di Omero o Virgilio. Uno degli oscuri e non scientifici aspetti del dibattito riguardo il celebre frammento di Qumran 7Q5 (Marco, 6,52-53) e il papiro di Oxford P64/67 (Matteo, frammenti dei capitoli 3, 5 e 26) è che molti critici li trattino come oggetti completamente differenti. Come se i manoscritti del Nuovo Testamento e quelli di altri testi dell'antichità fossero stati scritti su pianeti differenti. Ovviamente, ciò non accadde: essi dipendevano dalle stesse abitudini e tradizioni scribali, erano soggetti alle stesse tecniche di produzione, moltiplicazione e diffusione. Le persone che copiarono i Vangeli, per esempio, possono aver creduto all'accuratezza dei loro testi, ma prima di tutto erano comuni esseri umani, giudeo-cristiani, greci, romani e altri, che avevano acquisito l'abilità tecnica necessaria per far ciò che fecero. Quei controversi papiri del primo secolo di Marco e Matteo, tutti scritti prima del 70 d.C., sono un caso utile e rivelatore.
Su questo supplemento, il 2 giugno scorso, Gianfranco Ravasi presenta il nostro caso (pubblicato in Testimone oculare di Gesù, Piemme) in un modo non proprio adeguato.
Dice che noi abbiamo tre fondamentali argomenti per provare che il Vangelo secondo Matteo sia stato scritto prima del 70 d.C..
Il suo primo punto:
- a) la paleografia - cioè lo stile di scrittura - che è simile a quella dei manoscritti della grotta 7 di Qumran - e di alcuni della grotta 4, che egli omette di citare. Entrambe le grotte furono 'chiuse' nel 68 d.C., quando Qumran fu abbandonata. Assomiglia pure allo stile dei papiri di Ercolano, che devono essere più antichi del 79 d.C., anno in cui la città venne distrutta dall'eruzione del Vesuvio, e dei manoscritti del Nahal Hever. I testi del Nahal Hever risalgono alla prima metà del primo secolo. Ravasi li confonde con gli ostraca (cocci con iscrizioni) trovati a Masada, ai quali pure ci riferiamo e che devono essere più antichi del 73 d.C., anno in cui Masada fu occupata dai romani. Ravasi omette i nostri riferimenti dettagliati a ulteriori manoscritti confrontabili: il più antico papiro conosciuto dell'autore greco Aristofane o, per dare un altro esempio, una lettera di richiesta scritta da un contadino il 24 luglio 66, entrambi furono ritrovati in Alto Egitto.
Il punto qui è: certi stili e caratteristiche scribali erano comuni nell'ambito dell'Impero Romano, durante un particolare periodo. Non sappiamo da dove siano arrivati i frammenti di papiro del Vangelo di Matteo, il P64. Fu acquistato al mercato di Luxor nell'Alto Egitto, nel 1901, e fu probabilmente trovato non lontano da Luxor. Ma avrebbe potuto raggiungere tale luogo da Roma, o Corinto, o Gerusalemme, o Alessandria: non dobbiamo mai dimenticare che una nave impiegava tre giorni per raggiungere Alessandria da Roma, o cinque per raggiungere Pozzuoli da Corinto, e così via. Un Vangelo copiato a Roma potrebbe essere stato a Luxor od Ossirinco entro una settimana. In altre parole, dobbiamo abbandonare la vecchia e sbagliata idea di anni o decenni di evoluzione tra un testo e l'altro. Tutto accadeva molto velocemente, e così doveva essere: la gente voleva vedere i frutti del proprio lavoro, e lo spazio lavorativo nella vita di una persona in quei giorni era in media di 25 anni. Nessuno voleva aspettare. Velocità, energia, comunicazione, inventiva erano i segni distintivi del periodo neotestamentario.
- b) la tecnica di abbreviazione dei 'nomi sacri' nei papiri cristiani. Nomi e parole connessi con la Santa Trinità, come 'Dio' , 'Signore' , 'Gesù, 'Cristo' , 'Figlio', 'Spirito' e parecchi altri, erano abbreviati usando soltanto la prima e l'ultima lettera (a volte una terza). Si trattava di una dichiarazione teologica basata sul modello giudaico di scrivere il nome impronunciabile di Dio, YHWH - una sequenza di lettere che doveva sembrare una abbreviazione nei manoscritti greci dei testi dell'Antico Testamento, Gesù era Dio - una affermazione resa visibile abbreviando il suo nome e la parola 'Signore', che poteva essere usata sia per Dio che per Gesù.
Ravasi
pensa che io sia il primo a supporre che questo sistema fosse stato introdotto dagli scribi cristiani prima del 70 d.C. Ma non è così. Fin dalle pubblicazioni di Roberts e Skeat nel 1979 è nozione condivisa dai papirologi che l'introduzione di questo sistema deve essere avvenuta prima del 70 d.C., quando la comunità di Gerusalemme era ancora esistente. In effetti noi sappiamo quando questa comunità cessò di esistere: nell'anno 66 d.C., quando i cristiani fuggirono a Pella in Transgiordania.
In altre parole, un antico papiro con 'nomi sacri', come il P64, datato al periodo prima del 70 d.C., non può sorprendere studiosi che abbiano familiarità con la letteratura papirologica.
- c) il formato: il papiro del Vangelo di Matteo faceva parte di un codice, il precursore del nostro moderno libro - mentre in un primo tempo i cristiani avevano usato il rotolo, come ogni altro. Ancora, è risaputo tra i papirologi che i cristiani devono aver introdotto questo improvviso cambiamento dal rotolo al codice prima del 70 d.C. Perciò l' "improvvisa" apparizione di un codice cristiano su papiro non può sorprendere papirologi e storici che abbiamo dovuto comunque fare i conti con la sua esistenza. È superfluo dire che né i 'nomi sacri' abbreviati, né il formato di codice sono in loro stessi argomentazioni per una data più antica del papiro P64. Ciò che diciamo nel nostro libro è un fatto ovvio: queste caratteristiche non escludono una datazione antichissima (come hanno pensato alcuni critici del Nuovo Testamento): piuttosto, esse rendono accettabile che il papiro del Vangelo secondo Matteo appartenga effettivamente al periodo prima del 70 d.C.. La data in se stessa dipende dalle tecniche precise di datazione della paleografia comparativa: questo non ha bisogno di spiegazioni. È dunque assolutamente vitale distinguere tra caratteristiche di un particolare stile di scrittura che potrebbe essere stato usato in uno stadio più recente e altre che sono decisamente più antiche e si persero nell'uso. Ravasi cita erroneamente il contesto del mio articolo specialistico, pubblicato nel 1995, quando pensa che io faccia proseguire tutte le caratteristiche in periodi più recenti, senza differenziazione. Su una tale base nessun testo potrebbe venire datato. Il compito del papirologo non è così semplice. Ci vogliono mesi, e a volte anni, di lavoro di comparazione per distinguere tra conclusione e continuazione, stili antichi e più recenti all'interno di uno stesso periodo, tra massimo splendore e decadenza, e così via. Questo arduo lavoro di comparazione rende il lavoro del papirologo difficile, ma in fin dei conti, entusiasmante e appagante.
Non possiamo aggiungere ulteriori approfondimenti sui nostri papiri partendo dal riferimento di Ravasi a tre articoli di Emile Pucch. M.-I. Boismard e Pierre Grelot in un recente numero di «Revue Biblique». Tutti e tre gli articoli hanno una cosa in comune: gli autori sanno, ancora prima di cominciare, che il frammento 7Q5 non può essere Marco 6,52-53 e che il frammento P64 (S. Matteo) non può essere più antico del 70 d.C.. Di conseguenza essi distorcono le nostre argomentazioni, tralasciano dettagli necessari e ricorrono alla polemica quando vengono meno le argomentazioni. Non è questo il modo di condurre un dibattito scientifico. Noi studiosi di storia, papirologi, critici letterari e teologi dobbiamo lavorare insieme, non uno contro l'altro, e sicuramente non sulla base di quella dannosa 'prescienza' che è così diffusa nella moderna teologia. Il risultato della ricerca accademica può essere determinato alla fine, non all'inizio.
Gianfranco Ravasi
arriva infine al suo punto nodale: l'importanza delle date per la comprensione dei Vangeli e della loro storicità. Egli ammette che una datazione più antica (prima del 70 d.C.) sia importante per motivi storici. Ma dichiara anche che un testo primitivo non garantisce automaticamente l'autenticità dei contenuti. Ovviamente, anche il racconto di un testimone oculare deve essere analizzato - come accade anche oggi in ogni tribunale -.
Il punto di partenza, tuttavia, è: abbiamo a che fare con dei racconti di testimoni oculari, o siamo obbligati a fidarci di prove di seconda o di terza mano?
Ravasi
semplicemente sbaglia quando afferma: "Non è poi decisiva l'antichità dei Vangeli in sede esegetico-teologica". Almeno in un caso è assolutamente vitale: i moderni teologi credono che molte parole di Gesù siano state inventate da una seconda, posteriore, generazione di seguaci. Per dirla espressamente: credono che gli autori cristiani lavorassero di fantasia quando misero per iscritto delle parole di Gesù che Gesù non aveva mai detto. Un esempio classico è la sua profezia della distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Questo avvenne nel 70 d.C. Gli studiosi di Nuovo Testamento - con poche eccezioni - affermano che questa profezia fu inventata dopo l'evento, un cosiddetto vaticinium ex eventu. Tuttavia, se gli storici possono documentare, e se i papirologi possono mostrare che almeno uno dei Vangeli fu scritto prima della distruzione del 70 d.C., allora Gesù' fece la profezia. E quindi noi avremmo almeno (!) un ulteriore pilastro del ponte che attraversa il fossato tra il Gesù della storia e il Cristo della fede.
Non corrisponde a verità ciò che Ravasi dice, che gli eventi "non sono raccolti per ragioni storiografiche bensì per finalità kerygmatiche".
Gli storici sono giudici migliori, e può essere sufficiente ricordare ai lettori l'introduzione al Vangelo di Luca. Questa introduzione combina la pretesa esplicita di scrivere storia con l'ugualmente esplicita intenzione di aiutare nella comprensione della fede, precisamente perché essa è radicata in fatti storici, documentati da testimoni oculari. Leggete Luca, 1,1-4. Ravasi può decidere di non credere a San Luca. Ma onestamente non può dire che Luca non intendesse scrivere storia. Per Luca, storia e fede non sono opposte. Solo quando le fondamenta storiche sono stabilite, la fede può svilupparsi liberamente ed energicamente, senza doversi guardare indietro continuamente.
A questo riguardo, in ogni valutazione, Ravasi è corretto: dobbiamo mantenere un 'equilibrio'. E in ordine a capire le precise radici della nostra conoscenza storica, dobbiamo analizzarle senza pregiudizi. Ravasi cita Sant'Ireneo. Questo famoso 'Padre della Chiesa' scrisse a riguardo della cronologia del Vangelo di Marco, nel suo libro Adversus Haereses. Ma, contrariamente a quanto crede Ravasi, Ireneo non dice che il Vangelo di Marco fu scritto "solo dopo il decesso di Pietro e di Paolo". In una analisi computerizzata di tutte le opere di Ireneo, pubblicata nel 1992, lo studioso americano E. Earle Ellis diede la prova conclusiva che Ireneo usa sempre la parola greca thanatos quando vuole dire 'decesso', ed exodos quando vuole dire 'partenza'. Nel passaggio citato da Ravasi, la parola greca è exodos (detto incidentalmente, questo è anche il titolo del secondo libro dell'Antico Testamento, che non si riferisce alla morte del popolo di Israele, ma alla sua partenza dall'Egitto). In altre parole, Ireneo dice abbastanza chiaramente che il Vangelo di Marco fu scritto prima della morte di Pietro e di Paolo!
Infine, né il frammento 7Q5 (Marco 6,52-53), né il frammento P64 (Matteo 26) possono essere parti di una 'tradizione pre-evangelica'. Anche Kurt Aland, uno degli oppositori dell'identificazione fatta da O' Callaghan di 7Q5, ha ammesso che 7Q5, se appartenente a Marco, deve provenire da un Vangelo completo, poiché i versetti 6,52-53 combinano due brani narrativi nella loro edizione definitiva. Per Aland, questo fatto era una ragione per rifiutare l'identificazione, dal momento che credeva che non potesse esserci stata la redazione definitiva del Vangelo di Marco prima del 68 d.C.
Un modo curioso di condurre la ricerca scientifica. Nel caso del papiro di Matteo, sappiamo che doveva essere parte di un Vangelo completo: i due frammenti chiamati P67, ora a Barcellona, che un tempo appartenevano allo stesso codice, contengono parti dei capitoli 3 e 5 di Matteo. In altre parole: siamo di fronte a un vangelo completo, non a una 'Quelle' o fonte o, come lo chiamano Grelot e Ravasi, 'promemoria'.
I fatti puri e semplici rendono questa scappatoia impossibile. Due vangeli scritti prima del 70 d.C. - prima del 68 d.C., per essere precisi -: Marco e Matteo. Perché gli studiosi del Nuovo Testamento dovrebbero essere intimoriti da questo risultato della moderna ricerca storica? Non dovremmo essere tutti grati per l'intuizione che i vangeli, come documenti storici, furono scritti al tempo dei testimoni oculari, con accesso diretto al materiale autentico? O dovremmo guardare al dibattito con un certo senso di stupore e meraviglia, se gli studiosi del Nuovo Testamento vogliono effettivamente essere gli unici studiosi dell'antichità, che non gradiscono venga detto che i loro documenti sono antichi e autentici?
* Carsten Peter Thiede - Membro dell'Associazione internazionale dei papirologi (Aip), German Institute for Education and Knowledge, Paderborn.

 

1996, Giugno, Controrisposta a Carsten Peter Thiede di Gianfranco Ravasi

[Sulla questione della datazione dei vangeli sollevata da Gianfranco Ravasi il 2 giugno scorso è intervenuto il 16 giugno il papirologo Carsten Peter Thiede. Pubblichiamo ora la risposta di Ravasi.
È con una certa ritrosia che ritorniamo sulla questione del Papiro evangelico (Matteo 26) Magdalen, nuovo cavallo di battaglia di Carsten Thiede, il direttore del German Institute for Education and Knowledge di Paderborn dedicatosi da qualche anno alla papirologia neotestamentaria. E non solo perché continuiamo a non ritenere decisiva la determinazione cronologica del papiro stesso a metà del I secolo con la conseguente teoria storico-teologica ma anche perché non vogliamo defatigare i nostri lettori trasformando il supplemento del Sole-24 Ore in una rivista specifica di scienze bibliche.
Per cominciare - battuta per battuta - mi piacerebbe replicare all'invito che Thiede rivolge ai biblisti di non essere gli unici restii a non riconoscere l'antichità dei testi da loro studiati, con le parole di un grande studioso delle origini cristiane, Jean Danielou: "Abituati alla ricerca rigorosa e alla concatenazione delle prove, non lasciamoci irretire dal colpo di fulmine: può essere solo un fuoco d'artificio o un'illusione ottica". Cominciamo innanzitutto con certi errori sorprendenti, che vorremmo sperare dovuti al fatto che Thiede forse non conosce l'italiano ed è dovuto ricorrere a un traduttore che gli ha offerto un altro testo rispetto a quello da me scritto. Ecco un esempio illuminante. Scrive il nostro: "I testi di Nahal Hever risalgono alla prima metà del primo secolo. Ravasi li confonde con gli ostraca (cocci con iscrizioni) trovati a Masada, ai quali pure ci riferiamo e che devono essere più antichi del 73 d.C., anno in cui Masada fu occupata dai romani". Stupefatto, rileggo e riscrivo quanto avevo allora scritto: "Analoghe similitudini Thiede troverebbe coi papiri di Ercolano... e col manoscritto di pelle dei profeti minori biblici di Wadi Khabra (Nahal Hever), anteriore al 73, anno della caduta della fortezza ebraica di Masada, sotto le legioni romane".
Dove siano i miei 'ostraca' resta proprio da accertare... Ma lasciamo stare queste confusioni, come quella secondo la quale io riterrei Thiede lo scopritore dell'antichità (prima del 70) del sistema di abbreviazione dei nomi divini: conosco bene i saggi di Roberts e Skeat a cui si rimanda. Ma a proposito di costoro mi premerebbe, allora, ricordare che entrambi (e con loro anche H. Bell ed E. G. Turner) collocano, però, il papiro Magdalen alla fine del II secolo d.C.. Thiede, però, si guarda bene dal sottolineare la nostra conclusione che è la più sicura, scientificamente parlando: "Non abbiamo la prova che i frammenti di Magdalen sono di quel periodo ma solo che quel periodo è il terminus a quo" delle caratteristiche segnalate (cioè scrittura, abbreviazione di nomi divini e la forma del codice). Thiede stesso è costretto a riconoscerne il rilievo quando, divenuto improvvisamente modesto e cauto, scrive soltanto: "Queste caratteristiche non escludono una datazione antichissima; piuttosto esse rendono accettabile che il papiro del vangelo secondo Matteo appartenga effettivamente al periodo prima del 70 d.C..". Bell'esempio di argomentazione negativa... Anzi, come ricordavamo già nella nostra recensione, nell'articolo sulla «Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik» (1995, pag. 17), ancor più rispettoso, scriveva: "Le caratteristiche della scrittura trovata in questi ambiti poté essere continuata dopo questa data (cioè prima del 70), verso la fine del I secolo e forse anche più tardi". Ma il nostro giustamente rimanda all'analisi paleografica e, dopo una frase incomprensibile (forse dovuta alla versione del mio e del suo articolo dal tedesco) riguardo a una mia citazione considerata come "erronea del contesto del suo articolo specialistico pubblicato nel 1995" (?), fa capire di riproporre le argomentazioni già addotte. Esse, però, sono state smontate dall'articolo di quel grande paleografo che è Emile Puech da noi citato: è alle sue puntuali obiezioni che Thiede deve rispondere, senza accontentarsi di liquidare lo studioso come perverso negatore delle sue tesi. Tra l'altro egli scrive: "Puech, Boismard e Grelot sanno, ancora prima di cominciare, che 7Q5 (l'ormai famoso papiro 'marciano' di Qumran) non può essere Marco 6,52-55 e che P64 non può essere più antico del 70 d.C..".
Ma ha letto davvero i due saggi di Puech e Boismard sull'argomento o la sua è una reazione immediata, "ancora prima di cominciare"? E a noi spiace, per ragioni ovvie, di spazio e di genere, di non poter presentare gli argomenti di Puech e di Boismard, apparsi sulla «Revue Biblique», riguardo al P64 e a 7Q5. Thiede, però, ci fa capire che egli sta continuando le ricerche perché "ci vogliono mesi, e a volte anni, di lavoro di comparazione per distinguere tra conclusione e continuazione, stili antichi e più recenti all'interno di uno stesso periodo, tra massimo splendore e decadenza" eccetera.
Staremo a vedere.
Sta di fatto che per ora è legittimo non essere soddisfatti delle sue conclusioni.
Ma veniamo alla questione "esegetico-teologica". Qui Thiede si trova giustamente a disagio e si abbandona a scomposte reazioni e a non poche confusioni trattandosi di materia che gli è estranea. "Ravasi può decidere di non credere a San Luca", grida, dopo avermi menzionato il prologo dell'evangelista, il quale però conferma che l'evangelista scrive dopo la prima generazione dei testimoni oculari da lui interpellati e vagliati nelle loro attestazioni, cioè proprio quello che si sostiene da parte dell'esegesi storico-critica riguardo alla genesi dei vangeli. E aggiunge: "Onestamente non si può dire che Luca non intendesse scrivere storia". E qui è evidente la sua non conoscenza del genere 'vangelo' nel suo rapporto tra storia e fede.
Ma, caro Thiede, ha mai letto il vangelo di Luca con la sua grande e libera organizzazione strutturale del 'viaggio verso Gerusalemme' (cc. 9-19), frutto di un'evidente operazione redazionale? Non ha mai individuato il profilo del Gesù di Luca, differente secondo alcuni lineamenti rispetto a quello degli altri Sinottici? Non ha mai confrontato il vangelo dell'infanzia di Gesù secondo Luca con quello di Matteo? Se è 'storico' solo Luca, come la mettiamo con gli altri evangelisti e le loro diverse relazioni?
E sì che Thiede condivide quello che io scrivo a proposito di 'equilibrio' tra fede e storia. Non mi resta, allora, che rimandare all'articolo precedente ove avevo precisato il nesso tra storia e fede. Se la qualità storiografica dei vangeli può acquisire qualche vantaggio dalla retrodatazione (ma anche qui, con le cautele del caso), i quattro libretti non cessano mai di essere quello che sono, 'vangeli', cioè "buone notizie" in cui la storia - effettivamente presente - è selezionata, interpretata e trascesa. È per questo che ripetiamo, con buona pace di Thiede, che l'antichità dei vangeli "non è decisiva in sede esegetico-teologica" e lo è solo parzialmente in sede storiografica (si devono, infatti, risolvere ancora tanti problemi sulle molteplici diversità dei dati offerti dai racconti evangelici, si devono applicare criteri di verifica dell'autenticità dei dati, si devono condurre quelle ricerche storico-letterarie che l'esegesi storico-critica svolge non solo per mesi ma per anni e da decenni).
Dovremmo a questo punto aggiungere una serie di repliche su dettagli minori.
Mi piacerebbe ritornare sulla testimonianza di Ireneo della quale Thiede si sbarazza ricorrendo al computer e che meriterebbe un'analisi contestuale più accurata, oppure sulla questione delle fonti apoditticamente giudicata incompatibile con la sua ipotesi (Marco 6,52-53 - presente in 7Q5 secondo Thiede - fa parte, tra l'altro, della cosiddetta 'sezione dei pani' che pare essere un'unità autonoma preesistente ben articolata...).
Ci fermiamo qui, convinti che basti. Non tema Thiede: i biblisti saranno soddisfatti se si dimostrerà in modo rigoroso e con una base documentaria effettiva l'antichità dei vangeli. Tutto questo, però, non muterà di molto la ricerca sulla reale qualità dei vangeli stessi, così come è da sempre definita. Che la relativa distanza dai fatti supponga che "gli autori cristiani frodassero quando misero per iscritto" gli eventi e le parole di Gesù è un'obiezione del paleolitico esegetico razionalistico. Non impressiona né una seria esegesi storico-critica né una fondata teologia. Ci permettiamo, invece, di ricordare un rischio ben stigmatizzato nel finale di un articolo del teologo Inos Biffi, apparso in questi giorni sul quotidiano cattolico «Avvenire» e che vivamente consigliamo per l' 'equilibrio' e il rigore teologico: "Una sprovveduta visione teologica della questione sulla data dei vangeli innescherebbe una polemica sterile, con facili e infondate accuse di gnosticismo e una vana retorica sull'avvenimento".

 

1996 21 Luglio. Testo di Gianfranco Ravasi.

Vorremmo contestare punto per punto le argomentazioni di Carsten Peter Thiede che tendono a banalizzare le analisi esegetiche e la teologia ("camicia di forza di un sistema preconcetto di idee": sembra di sentire un vecchio razionalista dell'Ottocento!). Vorremmo ricordargli che quello che ora afferma in modo semplificato e polemico è quello che insegna in modo puntuale e accurato da tempo l'esegesi classica: la predicazione dei primi testimoni è assunta ed elaborata da parte degli autori dei Vangeli. Luca assume la testimonianza di altri e la elabora secondo un suo progetto storico, letterario e teologico. Il suo Vangelo è, quindi, opera di un testimone indiretto che dipende da altri appartenenti a un orizzonte da lui non più direttamente verificabile. Questo, però, dovrebbe creare difficoltà alla tesi di Thiede che tende a considerare i Vangeli come opera di testimoni diretti. Non ne crea nessuna all'esegeta perché sia i testimoni diretti sia gli indiretti hanno annunziato e scritto non una biografia storica bensì un 'evangelo'. Vorremmo ricordare, poi, a Thiede che ci sono ordinamenti dei dati e dei materiali nei vangeli che sono storicamente divergenti tra loro e non sono mero frutto di prospettive differenti (non per nulla Thiede non cita l'originale corpo centrale del vangelo di Luca da noi evocato). Basterebbe solo che si leggesse qualche serio (e non fondamentalista) commento esegetico ai Vangeli - pensiamo al Luca del suo connazionale Heinz Schumann e ai Marco e Matteo di Joachim Gnilka, pure lui tedesco, tutti tradotti anche in Italia - per accorgersi della complessità delle diverse letture, tutt'altro che sbrigativamente risolvibili con le battute. Potrei anch'io opporre facili elenchi di incompatibilità storiche tra i Vangeli (già S. Agostino le segnalava!) ma sarebbero fuorvianti, proprio per la specifica qualità del testo evangelico. Ma per non correre il rischio di dare il via a un nuovo genere, quello della telenovela esegetica, mi pare utile per il lettore - frastornato dalla vicenda - di ribadire alcuni punti veramente capitali di indole generale, vere e proprie articolazioni della questione nel suo rigore storico, esegetico e teologico. – a) la questione papirologico-paleografica dev'essere risolta con criteri propri.
In questo campo quella di O' Callaghan per il papiro di Qumran (7Q5) e quella di Thiede per lo stesso papiro e per il "Magdalen" di Oxford è un'ipotesi di identificazione evangelica per il primo e di definizione cronologica per il secondo, contrastata nettamente da altri paleografi con precisi argomenti papirologici. Fino a quando non si ha una ragionevole sicurezza e una certa base consistente si può solo parlare di ipotesi e nella storia si sa bene quante ne siano fiorite e in seguito avvizzite.
– la questione storiografica non si può risolvere con la pura e semplice retrodatazione che, al massimo, può offrire un contributo. E non solo per la ragione spesso detta che la contemporaneità non è automaticamente sinonimo di autenticità (lo stesso Thiede lo riconosce) ma soprattutto perché i criteri di verifica storiografica sono molto più complessi e devono essere applicati anche ai Vangeli. Questi ultimi, infatti, si presentano al riguardo a prima vista problematici.
E qui insistiamo.
Tanto per stare solo a Marco e Matteo, come mai tra i due esistono così numerose diversità, figure con notevoli variazioni, indicazioni storiche e geografiche non coerenti, mutamenti in parole e in memorie di Gesù e così via, come è stato già segnalato fin dal tempo dei Padri della Chiesa?
L'analisi storiografica sui Vangeli è stata molto sviluppata in questi ultimi decenni con criteri rigorosi e accurati e sarebbe opportuno per tutti conoscerne metodi e risultati.
– la questione letteraria: ci si perdoni la ripetizione, ma il genere "Vangelo" non coincide né con quello di un manuale di storiografia né con un verbale di polizia né con un documento redatto per un archivio storico né con una biografia in senso stretto (certo, neppure col genere del racconto mitico e con quello del romanzo storico). Giungiamo così al crinale tra letteratura-storia-teologia. I Vangeli sono libri nei quali la storia è indispensabile: l'evento Gesù è capitale e radicale. Ma la storia non è fine a se stessa perché nella figura e nell'evento Gesù si intuisce e si proclama la piena rivelazione di Dio. La Pasqua è il nodo d'oro in cui s'intreccia umanità (la morte) e divinità (la risurrezione) in modo inscindibile e questa epifania illumina chi era veramente Gesù Cristo, prima e poi.
Gli evangelisti e la costante predicazione della Chiesa illustrano nella storia di Gesù di Nazareth il mistero, compiendo un'operazione che va ben oltre quella dello storico e i loro testi ne sono una testimonianza limpidissima. È solo con questa serie di notazioni metodologiche precise, senza velleitarismi, stereotipi e tentazioni pubblicitarie, che si può impostare una genuina e seria ricerca sui Vangeli.

 

1997, Febbraio …Gianfranco Ravasi

Qualche mese fa, polemizzando col papirologo Carsten Peter Thiede riguardo al suo pamphlet Testimone oculare di Gesù (ed. Piemme 1996), esprimevano l'auspicio di veder raccolti, in un volume, i saggi scientifici che contestavano le asserzioni dello studioso tedesco e quelli, antecedenti, del gesuita spagnolo José O' Callaghan, risalenti al 1972, che dettero il via al dibattito.
Eccoci subito accontentati dal numero 247 della collana «Giornale di Teologia» che, a opera di Flavio Dalla Vecchia e con una preziosa post-fazione di un noto neotestamentarista italiano, Giuseppe Segalla, costruisce un dossier di undici articoli.
Naturalmente in capite sono poste quelle ormai famose nove pagine apparse nel 1972 sulla rivista Biblica nelle quali O' Callaghan sosteneva che il frammento 7Q5, ritrovato nella settima grotta di Qumran presso il mar Morto, databile per ragioni paleografiche tra il 50 a.C. e il 50 d.C., contenesse alcune parole del testo greco di Marco 6, 52-53.
A questo saggio è giustapposto, com'è logico, l'articolo caloroso di sostegno a questa identificazione che Thiede pubblicò sulla stessa rivista nel 1984, contribuendo così alla ripresa del dibattito e soprattutto a farlo sconfinare anche oltre il recinto specialistico.
Nel 1995 Thiede, che nel frattempo era diventato un apostolo della retrodatazione dei Vangeli, agitava di nuovo le acque con un articolo apparso sulla «Zeitschrift fur Papyrologie und Epigraphik» ove si prendeva di mira un altro testo, il papiro Magdalen greco 17 di Oxford, contenente alcuni versetti del capitolo 26 di Matteo. Anche questo saggio è ora inserito nel dossier ed è significativo confrontarne le risultanze con quelle del citato Testimone oculare di Gesù: lo studioso tedesco, trovandosi nel salotto buono della papirologia e senza le spinte promozionali del giornalista Matthew D'Ancona che aveva con lui curato il volume, si mostra molto più cauto (si tratterebbe di uno "tra i primi esempi della nascita del codice cristiano prima della fine del secolo").
A questo punto, presentate le tesi, ecco il fuoco di fila delle repliche affidate al Gotha della papirologia, della paleografia e dell'esegesi internazionale.

– Inizia Maurice Baillet, che fu editore ufficiale dei frammenti della settima grotta di Qumran, del quale segnaliamo solo la conclusione riguardante 7Q5: "L'identificazione di 7Q5 con Marco 6, 52-53 è sicuramente da respingere". E più avanti aggiunge: "Chi può dire se con pazienza, tempo e fortuna, non si giungerà un giorno a individuare nella Bibbia greca, non soltanto questo frammento (7Q3) ma l'uno o l'altro di quelli che O' Callaghan tenta di attribuire al Nuovo Testamento?".

– A Eichstatt, deliziosa cittadina medievale della Baviera, nel 1992 si era tenuto nel frattempo un convegno proprio sul rapporto tra Qumran e il cristianesimo (Christen und Christliches in Qumran è il titolo degli Atti pubblicati). Ebbene, uno degli interventi più puntuali fu quello di Camille Focant, la cui conclusione fu lapidaria: la tesi di Thiede-O' Callaghan "potrebbe essere discussa se fosse meno discutibile". Lo stesso autore è ora presente nel dossier con un articolo precedente (1985) ove s'infittiscono talmente le obiezioni all'ipotesi della presenza del Vangelo di Marco a Qumran da "renderci scettici sulla sua esattezza".

– Divertente e già assertivo è il titolo del testo successivo, quello di Hans-Udo Rosenbaum: Cave 7Q5‚ ove si gioca sul doppio senso di 'cave', in inglese 'grotta' e in latino 'guardati'. "L'auspicio - conclude lo studioso tedesco al termine del suo robusto studio - è che anche i non specialisti non si lascino deviare dagli scritti poco ponderati (e in parte anche di grande successo) di Thiede. Per essi soprattutto vale la messa in guardia del titolo: Cave 7Q5‚ Guardati da 7Q5".

A questo punto sfilano gli altri cinque contributi critici nei confronti di Thiede-O' Callaghan: essi appartengono ai grandi nomi della 'scuola francese':
- Marie-Emile Boismard, (due articoli)
- Emile Puech, (due articoli)
- Pierre Grelot, (due articoli)
Delle loro osservazioni avevamo già dato conto negli articoli apparsi nella scorsa estate durante il nostro dibattito con Thiede. Forse merita di essere segnalato il monito del battagliero Pierre Grelot (la sua autobiografia scientifica s'intitola Combats pour la Bible dans l'Eglise...); "La ricerca del sensazionale è una malattia molto frequente nella categoria dei giornalisti: coloro che credono a essi senza aver verificato la fonte cascano facilmente nella trappola così tesa. Nel caso presente, C.P. Thiede ha presentato un'ipotesi di lavoro dai contorni abbastanza incerti, che non procura alcun disturbo al lavoro degli esegeti seri. Le sue congetture convinceranno solo i giornalisti i quali ignorano tutti i dati del problema e quindi sono pronti ad accettare qualsiasi cosa a motivo di questa ignoranza. La solidità della fede non si fonda su congetture troppo poco solide".
Al di là della staffilata lanciata contro i giornalisti sulla quale non vogliamo pudicamente pronunciarci, Grelot allarga la questione verso un ulteriore orizzonte nel quale Thiede s'è mosso in modo piuttosto grossolano, quello della storicità dei Vangeli e del metodo esegetico storico-critico praticato costantemente e prevalentemente dai neotestamentaristi moderni. Basterebbe solo citare questa 'perla' del volume Testimone oculare di Gesù: "Fra i discepoli di Gesù si può pensare che Levi-Matteo ... avesse conoscenza pratica della stenografia (tachigrafia). Gli studiosi (?) hanno ipotizzato, abbastanza naturalmente, che avrebbe potuto stenografare, parola per parola, il Discorso della Montagna".
Di fronte a queste righe e ad altre simili Segalla - che, come si diceva, fa il punto conclusivo del dibattito al termine del dossier - giustamente osserva: "Qualsiasi studioso, dotato di una cultura biblica elementare, resterà stupito nel costatare quale ricca sintesi di ignoranza degli studi biblici sono riusciti a mettere insieme Thiede e D'Ancona" e nella pagina 187 ne elenca la serie, sottolineando tra l'altro un dato decisivo, ovviamente ignorato dai Nostri. "Noi non possediamo solo il Vangelo di Matteo, ma anche quello di Luca, che riporta pure un discorso iniziale di Gesù, più breve di quello trasmesso da Matteo e quivi incluso, in modo variato. Ora, se si accetta la tesi ingenua del Thiede, bisognerebbe dire che Luca ha sbagliato, perché non ha copiato bene il vero Discorso della Montagna riportato dal testimone oculare Matteo, discorso del vero Gesù". Il genere 'Vangelo' è ovviamente ben diverso da una cronaca, da un verbale, da una ripresa stenografica, da un testo storiografico, ed è solo frutto di semplificazione o propaganda immaginare che i problemi che gli scritti evangelici pongono per una corretta interpretazione possano essere spazzati via con la loro semplice (e, per di più, tutt'altro che certa) retrodatazione. I Vangeli devono essere interrogati su quanto essi realmente vogliono essere e comunicarci, cioè sulla "verità storica, e quindi sul significato degli eventi piuttosto che sulla fattualità spazio-temporale in senso moderno di quanto narrano", come giustamente annota ancora Segalla.
Il dossier che abbiamo presentato ha, comunque, lo scopo primario e il pregio di offrire a tutti la possibilità di vagliare in modo serio le argomentazioni paleografiche su alcuni testi che sembrerebbero ridatare i Vangeli di Marco e di Matteo. In realtà, sia 7Q5 sia il Magdalen greco 17 non portano al riguardo novità sconvolgenti e rimane, perciò, in vigore la collocazione cronologica che consegue all'accurata ricerca interna ai Vangeli stessi condotta dall'esegesi storico-critica: Marco potrebbe precedere il 70, gli altri seguirlo; nel caso di Giovanni si potrebbe giungere fino al 90.
A margine desidero dare una risposta a due lettori che tempo fa mi hanno chiesto informazioni sulla notizia riguardante la conferma della presenza del testo marciano in 7Q5 secondo le moderne teorie del calcolo. A quanto mi è noto, F. Rohrhirsch ha applicato alle lettere in questione il calcolo delle probabilità e ha illustrato i risultati nell'opera Markus in Qumran? Eine Auseinandersetzung mit den Argumenten fur und gegen das Fragment 7Q5 mit Hilfe des methodischen Fallibilimusprinzips, pubblicata nel 1990.
A quanto riesco a comprendere da questo scritto piuttosto 'tecnico', si afferma una probabilità esplicita e 'aperta' per Marco 6, 52-53, finché l'identificazione non venga 'falsificata' da un'altra differente. So anche che sono state applicate altre tecniche di elaborazione informatica che favorirebbero tale identificazione, ma non ho competenza nel settore per offrire una descrizione corretta e un giudizio dei procedimenti adottati e degli esiti.
Flavio Dalla Vecchia, Ridatare i Vangeli?, (Brescia 1997, Queriniana)

 

1997 di Gianfranco Ravasi
L'editore Piemme, forse per farsi perdonare di aver gettato benzina sul fuoco della passione e non del discorso motivato con pubblicazioni come i Manoscritti segreti di Qumran di Robert H. Eisenman e Michael Wise e il Testimone oculare di Gesù dell'ormai noto Carsten P. Thiede, affianca a costoro non solo James H. Charlesworth, direttore del più autorevole 'team' di studi su Qumran, il Dead Sea Scrolls Project, ma anche gli altri collaboratori di questo bel volume: tra di essi c'è pure un italiano, Paolo Sacchi dell'università di Torino (che è anche l'unico cattolico); gli altri sono sei studiosi protestanti, due ebrei e due 'liberi pensatori'.
Un'assemblea, quindi, molto variegata dal punto di vista ideologico e metodologico ma concorde nel liquidare quelle semplificazioni o quegli 'scoop' che hanno portato sulle prime pagine dei giornali i testi di Qumran, dando spesso la stura a ipotesi fantascientifiche, ulteriormente colorate dai giornalisti.
Qualche tempo fa, a esempio, mi hanno mostrato un documentario della televisione australiana Abc ove una studiosa di quel Paese, tale Barbara Thiering, senza battere ciglio dichiarava che il "Maestro di Giustizia" (il personaggio-simbolo della comunità di Qumran) sarebbe stato contemporaneo di Gesù, suo rivale interno. Infatti, sempre secondo la Thiering, i manoscritti del Mar Morto rivelerebbero che Gesù era nato a Qumran, non era mai finito in croce ma era stato uno dei membri di un 'monastero' esseno (come si sa, è convinzione comune che Qumran fosse popolato da seguaci del movimento giudaico detto 'degli Esseni' , in greco 'i puri, i pii' ).
Scopo di questo volume è appunto quello di spazzar via simili fantasie e le analoghe congetture che hanno fatto sospettare che i ritardi nella pubblicazione dei frammenti (i testi più ampi, ritrovati a partire dalla famosa scoperta del beduino Muhammad ed-Dib nel 1947, sono già stati editi) fossero legati a innominabili paure confessionali cristiane. Al riguardo è rilevante il ricco saggio iniziale dello stesso Charlesworth che elenca con puntiglio anglosassone tutte le affinità tra la dottrina e la prassi del Gesù storico (24 caratteristiche) ma anche le 27 differenze di tipo sociologico e teologico che egli ha individuato.
Non deve stupire che esistano contatti tra Gesù di Nazareth e gli Esseni perché l'orizzonte storico-culturale entro cui si muovevano era ristretto e passibile di osmosi. Così, la koinonia, cioè la comunione dei beni dei discepoli di Cristo (Giuda teneva la cassa comune secondo Giovanni 12,6 e 13,29) e della comunità cristiana delle origini (Atti 2,44), la condanna del divorzio, l'uso della locuzione 'figli della luce' e il concetto evangelico di "Spirito Santo" sembrano rivelare influenze essene. D'altronde, in sede strettamente teologica, l' 'incarnazione' - cioè l'umanita' del Figlio di Dio - dev'essere presa sul serio come inserzione reale in una trama di relazioni storiche, sociali, culturali, pena la caduta nello gnosticismo.
Ciò non toglie che lo studio accurato dei testi del Mar Morto riveli anche divergenze talora radicali, come nel caso della libertà con cui Cristo interpretava criticamente le Scritture. Charlesworth arriva al punto di affermare che le 'antitesi' del Discorso della Montagna (Matteo 5, 21-48: "È stato detto agli antichi: Non uccidere... Ma io vi dico...") "è molto possibile che fossero indirizzate contro gli Esseni". Radicale è anche la differenza dell'atteggiamento di Gesù riguardo al sabato e alle norme di purità rituale rispetto al costante insegnamento esseno. L'analisi comparativa, condotta con rigore e non per battute giornalistiche, si rivela dunque significativa proprio per la definizione del ritratto del Gesù storico secondo i criteri storiografici della discontinuità e della continuità.
In questo senso sono di grande suggestione anche altri temi affrontati dai dodici saggi qui raccolti. Rimandiamo, a esempio, all'esame di alcune parabole come quella dei vignaioli omicidi che si può - proprio attraverso una serie di verifiche comparative - far risalire a Gesù stesso, al di là dei rimaneggiamenti redazionali degli evangelisti. Analogo è il caso di quella dell'amministratore infedele (Luca 16,1-9), qui studiata da un noto storico ebreo del cristianesimo, David Flusser, il quale ritiene che "i figli della luce della parabola in questione possono essere direttamente identificati con gli Esseni, gli autori dei manoscritti del Mar Morto" (in Luca 16,8 leggiamo: "I figli di questo mondo verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce").
Particolarmente delicata è, poi, la questione della crocifissione di Gesù che alcuni in modo sbrigativo hanno visto già anticipata nei testi di Qumran come martirio del "Maestro di Giustizia". Joe Zias e lo stesso Charlesworth nel capitolo dedicato al tema sono lapidari: "Non vi è alcuna prova che il Maestro di Giustizia sia stato martirizzato o crocifisso; senz'altro non fu venerato come Messia crocifisso... L'idea che il Maestro di Giustizia fosse stato martirizzato fu divulgata quando i manoscritti del Mar Morto venivano erroneamente letti alla luce del Nuovo Testamento, di espressioni e di concetti cristiani".
Un altro argomento - ed è l'ultimo da noi segnalato, tra i molti affrontati in queste pagine - è quello dell'ultima cena di Gesù e della relativa cronologia. Qui ci viene in aiuto l'unico studioso italiano presente in questa silloge, il citato Sacchi, che accoglie la tesi formulata nel 1957 dalla francese Annie Jaubert. La contraddizione tra la datazione offerta dai vangeli sinottici e quella di Giovanni riguardo all'ultima cena di Cristo si potrebbe risolvere affermando che Gesù seguiva un altro calendario rispetto a quello farisaico dominante e, così, ritornerebbe in scena l influenza essena. Influenza approfondita, al riguardo, dall'ampio saggio di Rainer Riesner su "Gesù, la comunità primitiva e il quartiere esseno di Gerusalemme". "Se si accetta la possibilità - scrive lo studioso tedesco sulla scia di un suo collega, E. Ruckstuhl - che il quartiere esseno di Gerusalemme e il luogo in cui si svolse l'ultima cena di Gesù si trovassero a breve distanza l'uno dall'altro, vi è un'ulteriore ragione per supporre che l'ultima cena di Cristo sia stata il pasto della Pasqua ebraica secondo il calendario sacerdotale", seguito dagli Esseni.
In appendice vogliamo segnalare un'altra importante pubblicazione su Qumran che è apparsa in contemporanea al testo appena presentato. Si tratta di un'opera scientifica che vaglia un particolarissimo rapporto tra i manoscritti del Mar Morto e il Nuovo Testamento, quello che ruota attorno alla figura di Melchisedek, il re-sacerdote di Salem (Gerusalemme) che benedice Abramo offrendogli pane e vino (Genesi 14,18-20). È noto che la figura di questo personaggio ha un ruolo altissimo nella cristologia sacerdotale tratteggiata da quella mirabile omelia neotestamentaria che è la Lettera agli Ebrei. Ebbene, Franco Manzi, giovane studioso milanese, esamina la presenza piuttosto diversificata di Melchisedek negli scritti qumranici, in particolare in un lungo frammento trovato nella grotta undicesima e noto come il Documento di Malki sedeq (11Q Melch o 11Q13).
Non sono mancati coloro che, proprio sulla base di questa presenza, hanno ipotizzato una dipendenza diretta tra la Lettera agli Ebrei e Qumran, ipotesi che è scartata da Manzi, anche se egli ritiene possibile affermare una connessione indiretta nel quadro più vasto dell'angelologia. "Le somiglianze, infatti, sono spiegabili alla luce della comune conoscenza dei passi anticotestamentari su Melchisedek e dell'appartenenza di Qumran e della Lettera agli Ebrei al medesimo background culturale giudaico". Ancora una volta l'analisi puntuale e corretta rivela, sì, l'inserzione del cristianesimo delle origini nel contesto del giudaismo ma esorcizza le eccitazioni giornalistiche e i facili, 'scandalosi' concordismi.
- James H. Charlesworth, Gesù e la comunità di Qumran (Casale Monferrato 1997, Piemme)
- Franco Manzi, Melchisedek e l'angelologia nell'Epistola agli Ebrei e a Qumran", (Roma 1997, Editrice Pontificio Istituto Biblico)
- Hartmut Stegemann, Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù (Bologna 1996, Dehoniane).

 

1998 Luglio … Testo di Gianfranco Ravasi.
Sulla quérelle tra Gianfranco Ravasi e Carsten Peter Thiede.

[…] Testimone oculare di Gesù.
…Si arrivava al punto, ad esempio, di considerare pagine evangeliche come il Discorso della Montagna frutto di appunti presi da Matteo mentre ascoltava Gesù su quel non meglio identificato monte. Ma, allora, come si spiega che Luca - evocando lo stesso discorso - lo ambienta in una pianura campestre, riduce le Beatitudini da 8 a 4, mutandone la forma stilistica, vi aggiunge quattro invettive parallele e trasforma il tema generale dell'intervento di Cristo? Delle due l'una: o Matteo è "storico" e Luca è "infedele" o viceversa! Naturalmente la questione è molto più seria e complessa di quanto supponevano il docente e il giornalista e dev'essere affrontata con rigore a più livelli: papirologico, storico, letterario, teologico. Solo che per farlo seriamente c'è il rischio di cadere nell'accademismo e di procedere sui sentieri d'altura delle riviste specializzate (così hanno fatto molti colleghi di fama acclamata e di preparazione ineccepibile).
Ora, però, uno di costoro, anzi, uno dei maggiori, Graham Stanton, il quale è nientemeno che il Presidente della società internazionale degli studiosi del Nuovo Testamento, la Studiorum Novi Testamenti Societas, ha rotto gli indugi e ha elaborato un testo di straordinaria chiarezza ma anche di assoluta serietà e fondatezza, intitolandolo significativamente La verità del Vangelo.
Come è evidente, egli vuole in una quindicina di godibilissimi capitoli fare il punto su tutta la questione affrontandola secondo quei differenti livelli a cui sopra si accennava. Egli non teme di inoltrarsi in tutti i territori, in quelli divenuti ormai popolari con le varie approssimazioni pubblicistiche (pensiamo all' ormai famoso 7Q5 di Qumran che per alcuni conterrebbe un brandello del Vangelo di Marco) ma anche in quelli ben più ardui e "minati", come ad esempio la testimonianza pasquale sulla morte e risurrezione di Cristo.
E le ultime righe del suo scritto sono significative nel definire la delicata connessione fra fede e storia propria del genere letterario "Vangelo" che non è un manuale, una biografia storica né un trattato sistematico: "Noi abbiamo nei Vangeli testimonianze storiche precise; in essi abbiamo quattro immagini diverse di Gesù lasciateci dagli evangelisti che intesero presentare la storia al fine di proclamarne il significato".
È questo il difficile crinale sul quale si deve procedere con attenzione, senza lasciarci attrarre dal balenio di frammenti papiracei più o meno brillanti. I Vangeli sono testi nei quali la storia è indispensabile ma insufficiente. L'evento "Gesù" è capitale e radicale ma non esaurisce la persona di Gesù Cristo presentata da quei quattro libretti perché in essa s'innesta il trascendente, il mistero, il divino. Emblematica è la Pasqua che è quasi il prisma ottico che filtra l'analisi degli Evangelisti: in essa, infatti, si annodano la morte, cioè la storicità e l'umanità, e la resurrezione, cioè la fede e la divinità. È questo il nodo d'oro che tiene insieme i Vangeli.
Graham Stanton, La verità del Vangelo (1998, San Paolo, Cinisello Balsamo)

 

 

 

II vangelo sinottico [secondo la tradizione]

[considerato cronologicamente il primo: 65-70 e persino 50 d.C. per i sostenitori della presenza di Marco in quel papiro (frammento 7Q5 – frammento 5 della grotta 7 – del "monastero" giudaico di Qumran), l'evangelista Marco-Giovanni [i due nomi sono usati indifferentemente negli Atti degli Apostoli] scrive il secondo vangelo sinottico.
Egli è chiamato da Pietro "figlio mio" il che fa supporre lo abbia battezzato.
[Poiché nelle antiche testimonianze è spesso citato come "seguace" e "discepolo" di Pietro, è quasi da escludere che sia stato discepolo di Gesù.]
Scritto originariamente in greco anche se diretto principalmente a lettori latini, in particolare a pagani convertiti, il suo scopo è quello di dimostrare che Gesù è veramente il Figlio di Dio, come si afferma nel primo versetto.
[Questo di Marco è il più breve dei vangeli, si compone di sole 11.229 parole greche con un lessico di 1.345 vocaboli.
[Vedi Germania 1981]
Secondo il racconto agiografico l'evangelista morì ad Alessandria dopo avere subito il martirio. Le reliquie vennero tradotte a Venezia assai più tardi, nell'829 o nell'832, da due mercanti che le avevano acquistate da due ecclesiastici. Intorno al possesso delle reliquie che conferiva alla città lagunare la supremazia su quelle circonvicine, specie su Aquileia, ricollegandosi al concetto della praedestinatio, si scatenò una battaglia tessuta di leggende. Giunte a Venezia le reliquie vennero da principio custodite dal doge Partecipazio in una cappella sita in Palazzo Ducale, poiché la basilica primigenia, che doveva venire dedicata al martire e fungere anche da cappella ducale, venne eretta dopo la morte del doge, sul modello dell'apostoleion di Costantinopoli. Poco si conosce del più antico edificio, distrutto verso la fine del X secolo da un incendio e ricostruito nel luogo dove sorge la basilica attuale, dedicata nel 1094.
Il vangelo di Marco è stato "scoperto" solo recentemente [Non è questo un riferimento al tormentone storico-filologico iniziato nel 1972 e ancor oggi non placato, attorno all'ormai celebre frammento 7Q5 di Qumran, contenente – secondo il papirologo José O' Callaghan – alcune lettere greche di una frase presente in Marco 6,52-53, in particolare quelle Nnes che sembravano far parte del toponimo evangelico Gennesaret, indicante un centro che in passato aveva dato il nome al cosiddetto lago di Tiberiade.] proprio perché quello di Marco è stato uno dei vangeli più dimenticati. I Padri della Chiesa infatti, a questo libretto apparentemente schematico, avevano preferito il più solenne e compiuto vangelo di Matteo, il più intenso e raffinato vangelo di Luca e, naturalmente, il più "teologico" vangelo di Giovanni.
Il primo commento latino integrale a Marco appare solo nel V-VI secolo ed è uno Pseudo-Girolamo di scarso interesse, mentre per averne uno nell'antica e feconda esegesi greca bisognerà attendere fino al X secolo con un non celeberrimo Eutimio Zigabeno! È solo nel XX secolo che questo vangelo, considerato cronologicamente il primo (v. sopra), riceve un'attenzione straordinaria e viene circondato dalle premure di commentari spesso monumentali o comunque rilevanti (pensiamo a quelli di Schweizer, di Taylor, di Grundmann, di Lohmeyer, di Schmithals, di Pesch, di Ernst, di Gnilka e così via, nella maggior parte tradotti anche in italiano). Ci si era, infatti, accorti che quello di Marco non era solo il primo vangelo ma anche il primo progetto di annunzio (o, come si dice tecnicamente, di kerygma) della figura e del messaggio di Gesù Cristo a un orizzonte pagano (più che ai Romani, come si è soliti dire, si deve piuttosto pensare alla Siria e alla Decapoli, la regione ellenistico-romana della Palestina). Di lui, di quel Marco che avrà come emblema il leone, scelto tra i quattro esseri viventi del capitolo 4 dell'Apocalisse, sappiamo ben poco.
Alcuni esegeti hanno identificato un tratto autobiografico in quel giovane che fugge nudo lasciando in mano agli avversari di Cristo la "sindone" o lenzuolo in cui era avvolto per dormire nella notte drammatica dell'arresto di
Gesù nel Getsemani (14,51-52).
Papia
, vescovo di Gerapoli in Frigia (l'attuale Pamukkale in Turchia, famosa per le sue cascate pietrificate), attorno al 130 disegnava questo ritratto dell'evangelista: "Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente tutte quante le cose che ricordava, però non in ordine: sia le cose dette sia le cose fatte dal Signore". Quel "non in ordine" (ou taxei) la dice lunga sul giudizio che già allora si dava sull'opera marciana...
In alcuni passi paolini e nel capitolo 12 degli Atti degli Apostoli fa capolino un Marco, nipote di Barnaba e collaboratore di Paolo, mentre il nesso di Marco con Pietro e Roma è dedotto da Prima Lettera di Pietro ove si legge: "Vi abbraccia la comunità radunata in Babilonia (Roma?) e Marco, figlio mio" (5,13).
Ma ritorniamo al suo scritto, giudicato con riserva da Papia, esaltato invece da un nostro contemporaneo come Bas van Iersel che lo considera un capolavoro narrativo a doppia trama. Marco è uno scrittore "povero": usa un lessico di 1.345 vocaboli, ama la paratassi (il suo dettato è un costante singhiozzare di kai... kai..., "e... e..."), per Schmithals egli era ignaro di letteratura. Eppure questa povertà conquista, genera un'impressione di vivacità e di immediatezza e conquista il lettore moderno abituato alla secchezza tutta cose dello stile giornalistico. Marco sa, comunque, selezionare ben dieci vocaboli latini trascrivendoli a caratteri greci, usa undici termini per descrivere la casa e la sua quotidianità, dieci per i vestiti, nove per i cibi, non disdegna le parole popolari ("branda", "paesotti"), predilige i diminutivi ("barchetta", "pesciolini"", "cagnolini", "ragaz- zina"). Ci sono nel suo racconto apparentemente semplificato pennellate pittoresche tant'è vero che gli esegeti hanno coniato la locuzione "tratti marciani": sono annotazioni destinate a rendere realistici, carichi di umanità e "testimoniali" quadri che Matteo presenta invece in modo più ieratico ed epifanico. Ma ciò smentisce il giudizio di Papia e che intriga il lettore accorto di oggi è proprio l' "ordine" del vangelo marciano, cioè il suo progetto teologico-narrativo.
Uno studioso svedese, E. Sjoberg, l'ha presentato con un'immagine. Si ha qualcosa di simile a quando si entra in una basilica immersa nella penombra: inizialmente si intravede solo confusamente il volto che domina l'abside; ma, proseguendo verso l'interno, esso si svela nitidamente e alla fine si contempla in piena luce il Pantokrator, cioè il Cristo, Figlio di Dio sfolgorante nella sua gloria. Ecco, Marco ci conduce per i primi otto capitoli del suo libretto al seguito di
Gesù, predicatore e guaritore ambulante che impone il silenzio agli spettatori e ai destinatari dei suoi miracoli e che si ammanta di quello che gli studiosi hanno chiamato il "segreto messianico". A metà del vangelo, in 8,27-30, il velo di questo segreto è parzialmente squarciato dalla confessione di fede di Pietro che dichiara Gesù come il Messia atteso: "Tu sei il Cristo" (è noto che il greco christòs è la traduzione dell'ebraico mashiah, "consacrato", da cui deriva il nostro "messia"). Il viaggio nel segreto di Gesù continua perché egli annunzia di non essere un Messia trionfale ma un "Cristo" sconcertante, vittima e sconfitto. Proprio quando avrà raggiunto il patibolo della croce, la voce di un pagano, il centurione romano, solleverà definitivamente il velo sul volto di Gesù mostrando il segreto della sua identità ultima: "Veramente quest'uomo è Figlio di Dio!" (15,39). E la risurrezione non fa che sigillare questa proclamazione definitiva.
Il vangelo di Marco è giunto a noi quasi certamente munito della finale. Quella, infatti, che troviamo nelle nostre edizioni in 16,9-20 e che è la conclusione "canonica", è solo una delle diverse finali che la tradizione ci ha trasmesso (ed è forse una sintesi successiva dei dati riguardanti le apparizioni pasquali). D'altronde Marco aveva ormai detto tutto prima, secondo un progetto che già limpidamente il titolo premesso al suo scritto annunziava: "Vangelo di
Gesù Cristo, Figlio di Dio" (1,1).

1995, nell'ampio e dettagliato catalogo che commenta la mostra Omaggio a San Marco, il problema dell'identificazione del testo del frammento 7Q5 di Qumran, con i versetti 6,52-53 del vangelo di Marco, viene liquidato con esecuzione sommaria.
A conclusione della mostra la Procuratoria marciana ha organizzato un convegno dal titolo "Il Vangelo di Marco", al quale ha partecipato anche padre O' Callaghan, cui si deve tale identificazione, oltre a una tavola rotonda sul tema "Il Vangelo di Marco a Qumran? Esegesi e fede", dove l'interrogativo dispone, ad evidentiam, al dibattito.
Schierati alcuni dei sostenitori di tale lettura, Carsten Peter Thiede di Paderborn, esordisce asserendo che "il ritrovamento del frammento 7Q5 a Qumran è una sfida". Le ragioni a sostegno dell'identificazione sono così complesse da non consentirci di ripercorrerle senza rischiare di precipitare in errori che presterebbero il fianco a critiche incontrollabili; benché la sfida sia di ordine eminentemente storico, le implicazioni teologiche tutti sanno a quali tensioni conducono. Da più parti si vuol sottolineare l'irrilevanza sostanziale delle scoperte papirologiche di Qumran, con la conseguente retrodatazione dell'evangelo di Marco, in relazione al problema del valore storico del testo che secondo molti esegeti non può essere determinabile alla luce di metodi e risultati sensazionalistici. A tale obiezione ha fatto implicitamente riferimento Thiede quando ha rimarcato come l'identificazione del frammento è stata irragionevolmente osteggiata sulla base di assunti aprioristici che eludono il dibattito scientifico, nonostante le prove addotte a sostegno siano più che sufficienti alla certa attribuzione di qualsiasi altro frammento consimile, il cui testo non sconfini, però, in problematiche di natura teologica. Inoltre il frammento 7Q5 non può venire esaminato se non mediante un metodo interdisciplinare. Su questo tema si è soffermato anche Giuseppe Ghiberti dell'Università Cattolica di Milano, dopo aver posto due quesiti con i quali ha manifestato i propri dubbi: il primo riguarda la chiusura della grotta numero 7 di Qumran, se sia definitivamente avvenuta nel 68 d.C.; il secondo se lo stile fiorito utilizzato nel frammento si esaurisca effettivamente nel 50 d.C.; dubbi, per altro, rivolti alla datazione, poiché lo stesso Ghiberti si è premurato di confermare la propria adesione all'identificazione del testo in quello di Marco, ponendo tuttavia l'accento sul fatto che non è un frammento di papiro a dare fondamento alla verità di fede. Questo principio ovviamente inoppugnabile - si è fatto notare dal pubblico - non coglie nel cuore la questione che si concentra nel concetto che la datazione alta del frammento (40-50 d.C.), avvalora incontrovertibilmente il carattere dei vangeli, quali testimoni di avvenimenti visti, uditi e raccontati in forma di annuncio da coloro che li hanno vissuti in prima persona. Tutto ciò rappresenta una dura opposizione alle teorie razionalistiche di ispirazione bultmanniana, che sottolineano il ruolo teologico, quindi interpretativo della prima comunità cristiana post-pasquale nella redazione dei testi evangelici. Infine, Jullian Carrón di Madrid, applicando al vangelo una critica di tipo filologico-linguistico molto circostanziata, ha stabilito un'effettiva corrispondenza fra il testo e i luoghi di cui si narra; corrispondenza che da sempre ha creato scetticismo e problemi agli esegeti, in dibattito sulla vexata questio della diretta conoscenza geografica dell'ambiente dove Cristo visse. Lo stesso Carrón ha rimarcato come l'utilizzo di dati oggettivi è, innanzitutto, a favore della ragione, dalla quale anche la fede non può che venire corroborata.

 

1996, Marzo …di Marco Bona Castellotti

Il cippo di Abercio, benché discusso e controverso, è uno dei documenti più toccanti della diffusione del cristianesimo nel secondo secolo, quando la nuova religione era ormai da tempo dilagata, fattasi largo fra le incomprensioni, le censure, la diffidenza popolare, le accuse di infanticidio, d'incesto, di magia, ed era penetrata fra 'le genti'. Allo stato di crisi nel quale l'impero romano versava tra la fine del secondo e l'inizio del terzo secolo, crisi determinata dalle lacerazioni interne, dalla pressione di popoli nemici ai confini, al conseguente spopolamento delle campagne, corrisponde, per contro, l'accelerarsi del processo di diffusione capillare del cristianesimo in quei territori nei quali, sino ad allora, era approdato solo nei centri maggiori. Il suo affermarsi sempre più incisivo non poteva che destare sospetti, come forza destabilizzante della tradizione che vedeva nella figura dell'imperatore il punto di coesione di gruppi di fede diversa, disseminati nella difforme compagine delle popolazioni soggette a Roma. All'accusa di ateismo si aggiungeva così l'aggravante della lesa maestà, tanto che dalla sfera dell'ideale il conflitto non tardò a sconfinare nella politica.
Da Nerone in poi le reazioni si susseguono, giungendo sotto Decio, nel 250, a una persecuzione contro i cristiani diffusa sull'intero territorio controllato dal potere di Roma.
Nella situazione frammentaria che caratterizzava la società giudaica al tempo di Gesù, nella quale convivevano, spesso opponendosi fra loro, i farisei, depositari della Legge, i sadducei, ossia il partito degli aristocratici, i samaritani e gli zeloti, coloro che affermavano con 'zelo' un nazionalismo conservatore, esisteva anche, la comunità degli Esseni. Di loro aveva fornito un'oscura notizia il "Documento di Damasco". Altre notizie, in maggior copia, si ricavano dai numerosi rotoli e frammenti scoperti dal 1947 nelle grotte di Qumran, località addossata alla sponda nord-occidentale del Mar Morto, sulle alture del deserto di Giuda.
Del gruppo degli Esseni doveva forse far parte anche Giovanni il Battista. Un sacerdote appellato "Maestro di giustizia" dettò alla comunità le norme racchiuse nella Regola. Già agli inizi del secondo secolo avanti Cristo esiste un distaccamento di sacerdoti e di devoti, dediti a una forma di vita comunitaria che affermava, fra l'altro, il celibato. Aveva lasciato Gerusalemme e si era ritirato nelle zone desertiche del Mar Morto per condurre una vita ascetica.
Nel capitolo della mostra sulla tradizione scritta, approfondimento della prima sezione dedicata alla Palestina al tempo di Cristo, sono esposti, per la prima volta fuori dalla loro sede abituale, gli originali di alcuni frammenti. Punti fermi di un tema ad alta intensità, sulla loro interpretazione e sulla loro datazione si stanno arroventando le polemiche che, rotti gli argini della filologia e dell'esegesi, invadono il territorio minato della teologia.
È proprio sul problema della storicità e della datazione dei Vangeli che diverse scuole di pensiero stanno affilando le lame della dialettica, specie da quando un gesuita spagnolo, padre Jose' O' Callaghan e uno studioso di Padeborn, Carsten Peter Thiede (direttore della mostra e autore, tra l'altro, del volume Testimone oculare di Gesù che verrà pubblicato a maggio in contemporanea mondiale e in Italia presso Piemme), hanno interpretato la scritta lacunosa che compare sul frammento 5 della grotta 7 di Qumran (esposto), come un passo del Vangelo di Marco, retrodatandolo ad anni anteriori al 50.
Questa anticipazione ha scatenato il livore delle retroguardie del gregge del teologo protestante Rudolph Bultmann, un gruppo di esegeti stretti nel busto del dogmatismo razionalista che, in nome di uno spiritualismo esclusivo e fondamentalmente antipopolare, pretendono di separare la fede dalla storia, smantellando la consistenza storica della figura di Cristo che si riduce a mito. Proiettati in tale sforzo, organizzano la propria offensiva cancellando le tracce della storicita' dei Vangeli, così che la fede, sganciata dal fondamento della storia, si minimizza in puro moto sentimentale, o a quello che Ludovico Antonio Muratori, due secoli orsono chiamava un 'entusiasmo', riferendosi all'agitarsi scomposto di "quacheri e altri fanatici oltramontani".
La presenza dei papiri di Qumran, del frammento 5 con il testo di Marco e del frammento 4 con un passo della prima lettera a Timoteo, che evidenzia come la Chiesa, allora, fosse già saldamente costituita secondo una fisionomia precisa, ma anche dei papiri di Ossirinco, rappresenta il fulcro ideale intorno al quale si sviluppa il percorso espositivo che, nella seconda sezione, documenta i viaggi di Paolo e la diffusione del verbo cristiano, nel suo spirito di coinvolgente universalismo.
L'affermarsi del cristianesimo procede di pari passo con l'assimilazione di diverse tradizioni e culture, alla luce del principio paolino del "giudicate tutto e trattenete ciò che vale". Il fascino dell'evento cristiano non diminuisce nemmeno dopo l'editto di Costantino, quando la Chiesa ha libero campo per organizzarsi ufficialmente.

 

1997, Luglio … Gianfranco Ravasi

Anche se avvolto dall'aureola prestigiosa di Pietro, del quale avrebbe raccolto le memorie e la predicazione, il Vangelo di Marco è stato per secoli emarginato dall'è esegesi, a partire dallo stesso Agostino che non esitava, nel suo De Consensu evangelistarum (I, 2, 4), a liquidare Marco come "il valletto e il compendiatore di Matteo', il più divino degli abbreviatori". Che sia il più breve dei quattro vangeli con le sue 11.229 parole greche contro le 18.278 di Matteo e le ben 19.404 di Luca è evidente, ma che sia il "compendiatore" di Matteo è per gli studiosi moderni un'illusione ottica del grande vescovo di Ippona: in realtà è Matteo a usare Marco come fonte e a rielaborarne i dati per cui ben 606 dei 621 versetti marciani si ritrovano sostanzialmente nel testo matteano. È così che Marco ha ottenuto il primato cronologico tra gli evangelisti, con la comune collocazione tra il 65 e il 70. È noto, anzi, che la contestatissima identificazione di un passo redazionale marciano (6,52-53) in un frammento greco dei manoscritti di Qumran presso il mar Morto ha anticipato ulteriormente questo primato cronologico, portandolo a prima del 50. Ebbene, un nuovo commento al Vangelo di Marco, frutto del lavoro di due esegeti spagnoli e che è tradotto per ora solo nella sua prima parte (fino a Marco 6,6), sostiene questa ipotesi non però sulla base del "fragile" papiro qumranico, bensì su ragioni interne al testo stesso ove emergerebbero segnali che rimandano al regno di Erode Agrippa I, cioè agli anni 41-44. Ma il rilievo di questo vasto commentario (più di 550 pagine per la metà dell'opera marciana) è da cercare altrove. Esso, infatti, abbandona la via classica storico-critica e si affida al testo nel suo auto-porsi, prescindendo dalla sua preistoria, dalla sua formazione e dalla sua redazione. Sostanzialmente siamo in presenza di un'analisi sincronica di taglio semiotico. In verità gli autori non usano il linguaggio critico e autoreferenziale degli stutturalisti (non ci imbattiamo in nessun "livello attanziale" né nell'omo- o eterodiegesi né nei "quadrati semantici" e così via) e non ne rispettano del tutto l'immanentismo testuale ("interpretare il testo solo mediante il testo stesso"), ma fanno rientrare dalla finestra alcuni contributi del metodo storico-critico, preoccupandosi anche del contesto letterario e teologico antitestamentario e giudaico, delle coordinate socio-culturali dell'epoca entro cui il vangelo è germogliato e si è insediato.
In questa luce riteniamo positivo aver premuto il pedale dell'esegesi sulla pagina marciana in sé assunta anche perché, contrariamente alla cosiddetta Formgeschichte (storia della formazione e delle forme "evangeliche") bultmanniana che pensava generalmente agli evangelisti come a compilatori che usavano forbici ora si è convinti che "ogni evangelista è un teologo per diritto proprio e ha un'intenzione teologica nello scrivere il suo vangelo" (R.H. Stein). Detto in altri termini, nel testo si accendono i segnali luminosi distribuiti da Marco stesso per definire il suo progetto e, al di là del suo linguaggio semplice e immediato che, con evidente esagerazione, H. Turner aveva definito da "garzone di scuderia", l'evangelista si rivela abile artefice di un progetto letterario e teologico. La sua narrazione apparentemente popolare, inceppata dalla singhiozzante ripetizione di kaià kaià , "e..e...", la sua spoglia essenzialità, lontana dalla nobiltà ieratica di Matteo o dell'appassionata eppur raffinata partecipazione di Luca, persino il suo apparentemente disordine già segnalato attorno al 130 da Papia vescovo di Gerapoli di Frigia, non escludono in realtà una strategia letteraria e ideale: si pensi alla sua "teo-logia" in senso stretto, cioè al Dio di Gesù e al suo Regno, al Cristo Messia, "Figlio dell'uomo" e maestro, alla centralità dell'Uomo dovuta al fatto che Dio lo si incontra proprio in Gesù, uomo-Dio, e così via. Il commento di Mateos - che ha già alle spalle con un altro collega spagnolo J. Barreto, una precedente analisi del Vangelo di Giovanni, tradotto dalla stessa editrice - procede con un impianto abbastanza omogeneo. Dopo aver offerto la pericope, cioè l unità testuale compiuta che è come la cellula di una più ampia trama narrativa, si allineano alcune note fisiologiche in caratteri tipografici minori quasi a indicarne la funzionalità rispetto alla successiva comprensione. Si delineano poi l'articolazione del brano (contenuto e divisione strutturale) e i suoi segnali tematico-interpretativi e si procede infine alla lettura vera e propria, che è ovviamente il cuore del commento. Si tratta di un percorso lento, ma molto accurato e fruttuoso, capace di mostrare quanto il nostro "valletto" o "garzone di scuderia" sia in realtà originale e talora persino sofisticato nel suo proporre la figura, l'opera e la parola di Cristo. La sua apparente povertà lessicale (usa solo 1.345 vocaboli diversi, ma anche Racine ne impiegava solo un migliaio' ) si rivela regolata da dosaggi attenti e da una forza notevole d'impatto e di incisività. C'è, dunque, da sperare che - anche con questo nuovo sussidio esegetico - i credenti ritornino con occhio diverso a Marco proprio in questo anno in cui il testo marciano è letto a brani nella messa domenicale e i "laici" cerchino magari di affrontarlo per la prima volta in modo diretto come la prima e più antica espressione del vangelo di GesùCristo.
J. Mateos-F. Camacho, Il vangelo di Marco. Analisi linguistica e commento esegetico, (Cittadella, Assisi 1997, vol. I)

 

 

 

III vangelo sinottico [secondo la tradizione]

[poco prima del 60 d.C.], l'evangelista Luca, medico di Antiochia, discepolo fedele di Paolo, considerato anche l'autore degli Atti degli Apostoli, soprattutto per lo stile infarcito di terminologia medica, scrive il terzo vangelo sinottico, diretto a cristiani provenienti sia dal paganesimo che dal giudaismo.
Esso mette in risalto che Gesù è il "salvatore" di tutti gli uomini indistintamente.
[Questo di Luca è il più lungo dei vangeli, si compone di 19.404 parole greche.]

 

 

IV vangelo [secondo la tradizione]

[sul finire del I sec. d.C.], l'evangelista Giovanni, discepolo prediletto di Gesù, scrive questo quarto vangelo [la sua attribuzione, peraltro saldissima, già dal II sec. d.C., sarà messa in dubbio solo nel XVIII secolo], che si differenzia dagli altri tre non solo nel racconto (spesso suppone e dà per scontato ciò che già si trova negli altri) e nei luoghi (la Giudea invece di Galilea) ma anche per l'importanza che attribuisce alle discussioni dottrinali di Gesù (per es. con i Farisei).
La terminologia spesso astratta (cfr. i termini luce, verità, vita) lo farà sempre considerare [anche ai nostri giorni] un vangelo "spirituale".
[Questo vangelo di Giovanni si compone di 15.416 parole greche.]
Il francese Claude Tresmontant, ex professore di filosofia medievale alla Sorbona (altre volte contraddetto, nelle sue "incursioni", dal collega francese Pierre Grelot), ribaltando quindici secoli di esegesi, ha fatto del quarto il primo vangelo; in seguito
ha affermato che il Vangelo di Giovanni è da collocare tra il 36 e il 41, sostanzialmente perché non esistono indizi per riportarlo oltre la seconda metà del secolo.
[Per l'esegesi di Giovanni si rinvia a Brown, Dodd, Barrett, Hoskyns, Schanackenburg, Fabris.]

 

 

Su questi modesti libretti, stesi in un greco modesto [in definitiva sono 64.327 parole, "incomparabili" con quelle scritte da un Platone o un Erodoto e un Plutarco], ibridato da forme "dialettali" semitiche, dalla stilistica modesta, si addenserà una bibliografia sterminata.
[vedi esempio: Germania 1981]

[vedi Manoscritti di Qumran o Rotoli del Mar Morto – 1947]

"Origine e datazione dei Vangeli"

I Vangeli sono una cronaca di testimoni diretti agli avvenimenti della vita di Cristo? Oppure sono testi redatti sulla base di testimonianze orali? E ancora: può la scienza nelle sue varie discipline fornire prove sicure per confermare storicamente ciò che è stato tramandato dalla fede?
[Per una risposta a queste domande vedi: 1991, ottobre, "In quel tempo. Origine e datazione dei Vangeli", conferenza tenuta presso il Centro Culturale San Carlo di Milano, nell'Aula Magna dell'Università Cattolica.]

 

 

 

 

GALLIA

SPAGNA

PANNONIA

È provincia romana dal 9 d.C..
I confini sono compresi fra il Danubio, i monti della Bassa Austria, l'alto corso della Sava, le Alpi Giulie.
[Corrispondente in parte all'odierna Ungheria].

 

 

BRITANNIA

È provincia romana dal 48 d.C..

 


EGITTO
30 a.C.-641 d.C. Epoca romana e bizantina.

 

CINA

Kuang Wu-Ti [Dinastia Han occidentali]
? (il ?), Ti è una delle parole cinesi che indicano la maestà imperiale;
22-?, imperatore della Cina;
la capitale dell'impero è fissata a Lo yang;
ristabilisce la proprietà terriera e il confucianesimo;

 




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Epitteto (Ierapoli 50-138) filosofo greco;
con Seneca e Marco Aurelio è uno dei rappresentanti più notevoli del tardo stoicismo;
schiavo di un liberto di Nerone, conosciamo il suo pensiero attraverso lo storico suo scolaro Arriano di Nicomedia che compose le Epicteti dissertationes e il Manuale.

Stazio, Publio Papinio (Napoli 50 ca-96 ca) poeta latino;
figlio d'arte (il padre era poeta egli stesso e grammaticus, cioè maestro di scuola e commentatore di poeti greci), fu iniziato precocemente alla poesia;
dopo successi locali (negli augustalia, pubblici concorsi quinquennali), segue il padre che trasferisce la sua scuola a Roma (prima del 69); qui egli si afferma subito presso la società elegante (e amante della bella letteratura) dei salotti vicini alla corte;
La Tebaide (poema epico di argomento mitologico, in XII libri, compiuto nell'arco di dodici anni; tratta della spedizione dei Sette a Tebe)
Silvae (89-95 ca, V libri, raccolta di trentadue carmi d'ccasione)
Negli anni più torbidi del "terrore di Domiziano, torna nella sua Napoli dove muore.

Tacito, Cornelio (55 ca-120 ca) uomo politico e storico romano.
[Incerti luogo e data di nascita, la paternità e lo stesso prenome (Publio o Gaio).]


Valerio Massimo (sec. I d. C.) storico romano;
accompagna nel proconsolato in Asia Sesto Pompeo;
Factorum et dictorum memorabilium libri IX (manuale di esempi retorico-morali, dedicato all'imperatore Tiberio)
[Le ampie critiche a Seiano contenute nell'opera fanno pensare che essa sia stata pubblicata subito dopo la caduta di questi, nel 31 d.C..
Il materiale, tratto da antichi annalisti, da Varrone, Livio e da raccolte analoghe, è ordinato secondo criteri filosofico-morali ma con un piano non ben definito. Citata da Plinio e da Plutarco, l'opera (conservata) sarà letta per tutto il Medioevo.
Se ne possiedono anche due epitomi; una di Giulio Paride, forse del sec. IV, che aggiunge al riassunto un breve sommario sui nomi romani, De praenominibus, tramandato in alcuni manoscritti come decimo libro dell'opera stessa di Valerio; e una seconda, interrotta nel III libro, di Ianuario Nepoziano (sec. V).]


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ROMA

41-54, Claudio imperatore;

51, Afranio Burro prefetto del pretorio;

54
, Claudio muore per avvelenamento ad opera della quarta moglie Agrippina.
[I suoi studi (Tyrrhenikà, la Storia degli etruschi) vengono sbeffeggiati. Significativa la satira che Seneca osa pubblicare subito dopo la sua morte, dell'imperatore; si intitola Apokolokyntosis, alla lettera "zucchificazione" dove la zucca è simbolo della stupidità. Con acrimonia Seneca illustra la morte e il viaggio al cielo e poi all'inferno dell'imperatore assassinato.]
Nello stessoanno, durante il consolato di Marco Asinio e Manio Acilio è annunciato da frequenti resagi l'avvento di gravi vicende! Come allamorte di Cesare, di nuvo si avvista in cielo una cometa.
Con la sua morte si chiude anche la decima e ultima età etrusca.
Gli arùspici annunciano la fine della nazione etrusca.

54-68, Nerone imperatore;

55, Nerone fa uccidere Britannico, figlio di Claudio e di Messalina;

59, Nerone fa uccidere la madre Agrippina;

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