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Silvio PELLICO

(Saluzzo, Cuneo 24 giugno 1789 – Torino 31 gennaio 1854)

scrittore e patriota italiano;

[Figlio di Onorato, un modesto commerciante saluzzese, e di Margherita Tournier, savoiarda di Chambery.
La famiglia era oriunda dalla Provenza e il cognome originario era Pellicot che il padre ha italianizzato in Pellico.
Il suo primo nome battesimale è Giuseppe mentre Silvio è l'ultimo ed è stato prescelto perché meno comune.
Fratelli:
. Luigi, poeta e commediografo;
. Francesco, gesuita;
. Maria Angela, morta giovane in un monastero di Torino;
. Giuseppina, monaca nel convento delle Rosine;
. altri cinque fratelli, tra maschi e femmnine, morti tutti in giovane età.]


1806-1809
dopo gli studi a Pinerolo e a Torino, si reca in Francia, a Lione, per fare pratica nel settore commerciale con lo zio.

[Il padre, devoto ai vecchi ordinamenti e quindi malvisto dai rivoluzionari, è da essi costretto ad esulare dal Piemonte insieme con la famiglia.
Quando l'astro di Casa Savoia torna a splendere sul Piemonte, rimpatria e apre a Torino un negozio di drogherie. Gli affari però vanno male, perché egli ama le Muse, appartiene a varie accademie, compone versi e di conseguenza ben poco si occupa del suo commercio, al punto che per un dissesto è costretto a fuggire a Milano (capitale dell'effimero Regno Italico, fondato da Napoleone).
Qui la fortuna gli è così benevola che ottiene un modestio impiego nel Minstero della Guerra.
A Milano torna a stabilirsi la famiglia.]

tornato in patria si stabilisce a Milano dove stringe subito amicizia con:
. V. Monti, verso il quale non nutre né stima né affetto poiché la sua musa si ispira al succedersi e all'incalzare degli avvenimenti politici;
. U. Foscolo, a cui si lega con grande affetto e, mentre si trova in esilio, scrive: «T'amo più che non potrò mostrartelo mai».
. M. Gioia,
. P. Borsieri,
. L. di Breme, ecc.


fa il precettore del piccolo Odoardo Briche presso la famiglia del conte;
[Nel 1817 si suiciderà con un colpo di fucile].

1813

Laodamia (1813, tragedia in versi di impianto classico)

1814


alla caduta del regime napoleonico, perde la cattedra di francese;

1815

dato che i compensi di "casa Briche" non bastano per il suo sostentamento, cerca occupazione in un'altra famiglia nobile;

annientata per sempre la potenza napoleonica, la famiglia torna in Piemonte ma egli rimane a Milano come insegnante di lingua francese nel Collegio degli orfani militari;

Francesca da Rimini (1815, tragedia *)
[Dopo averla fatta leggere a U. Foscolo per averne un parere, ne riceve un giudizio severo con l'aggiunta: «Getta al fuoco la tua Francesca! non revochiamo d'Inferno i dannati danteschi: farebbero paura ai vivi».
Egli non la dà alle fiamme ma, fatti alcuni tagli e molte correzioni, la legge nella nuova forma al letterato Lodovico di Breme che lo incoraggia a farla rappresentare.]


18 agosto, la tragedia, portata sulle scene del Teatro Re di Milano dalla compagnia dalla prima attrice Carlotta Marchionni, ottiene un grande successo;
[Un successo che le arriderà per più di mezzo secolo in tutti i teatri d'Italia, principalmente per il favore dei liberali, ai quali piace moltissimo l'apostrofe di Paolo all'Italia: «Per te, per te, che cittadini hai prodi, - Italia mia, combatterò se oltraggio - ti muoverà l'invidia» etc., versi che in seguito la censura sopprimerà.]

frequentando la casa di Carlotta Marchionni, s'innamora di Teresa [Gegia] Bartolazzi, cugina della grande artista e artista anch'essa: ne chiede la mano e l'ottiene, ma i genitori da Torino oppongono un reciso rifiuto;

frattanto porta a compimento Eufemio da Messina ma la censura ne proibisce la rappresentazione e la stampa;
[Notevole in questo lavoro è la mancanza della dirittura religiosa di un tempo dell'autore.]

1816
si trasferisce a Magenta nella casa del conte L. Porro Lambertenghi, il centro più vivo del liberalismo milanese, dove assume l'incarico di istitutore dei figli Domenico [Mimino] e Giulio Porro Lambertenghi;
egli ha quindi modo di vivere agiatamente e in un ambiente di persone colte e di sentimenti liberali; fra gli stranieri di passaggio a Milano conosce: M.me de Staël, Stendhal, G. Byron, A.W. Schlegel, J.C. Hobhouse e lo storico J.-C.-L. Simonde de Sismondi;
la casa del conte è ovviamente tenuta d'occhio dalla polizia austriaca ed egli stesso è molto vigilato, come pure F. Confalonieri;

 

1818
settembre, Milano, nella casa del conte L. Porro Lambertenghi, viene realizzata la pubblicazione de «Il Conciliatore», giornale d'avanguardia, detto "il foglio azzurro" dal colore ceruleo della carta, del quale il poeta è di nome "l'estensore" come si firma in fine a ogni numero e di fatto il direttore perché è lui a dirigerlo e a redigerlo in casa del conte;
[Palesemente si propone di «conciliare tutti i sinceri amatori del vero», mentre di nascosto cerca di richiamare gli Italiani alla realtà, con i suoi articoli, studi e novelle di scrittori romantici, dando inizio al movimento di redenzione della Patria che dovrà essere coronato dall'Unità d'Italia.]

Al giornale l'Austria oppone:
- «l'Attaccabrighe», compilato da un ignorante e villano commissario di polizia,
- la «Biblioteca Italiana», anch'essa mantenuta dal governo,
e poi ancora l'arma terribile della censura, che senza alcun riguardo mutila il giornale di tutto quanto possa anche lontanamente suonare offesa all'Austria e al suo regime politico;
l' "estensore" viene invitato più di una volta all'ufficio di polizia, per sentirsi minacciare l'espulsione dagli Stati di S.M. l'Imperatore, se sottoporrà ancora alla censura scritti suoi o altrui di carattere politico;

1819

estate, s'innamora della nobildonna Cristina Archinto Trivulzio;
[Ma a novembre dello stesso anno lei sposerà il conte milanese Giuseppe Archinto. I due innamorati si rivedranno solamente nel 1836, ma dovranno passare altri 11 anni prima di ritrovarsi definitivamente.]

ottobre, «Il Conciliatore» viene soppresso;

in casa di Carlotta Marchionni, conosce P. Maroncelli – uno dei capi della Carboneria milanese –che, innamoratosi dell'attrice, vorrebbe sposarla ma riceve come risposta un bel no;
frequentatori assidui della casa, i due diventano presto amici;

intanto l'Austria emana un terribile editto, in cui si commina la pena di morte non solo a tutti gli affilaiti, ma anche a tutti quelli che, venuti a conoscenza di un affiliato, non lo denunziano;
incuranti del rischio, ben presto entrano nella setta segreta dei cosiddetti "Federati":
. lui, iniziato ai misteri carbonari da P. Maroncelli,
. conte L. Porro Lambertenghi, adiratissimo per la soppressione de «Il Conciliatore»,
. F. Confalonieri, desideroso di impadronirsi della cosa pubblica;
 
Illuso di trovare adepti in tutta l'Italia settentrionale, si reca a Venezia, ma inutilmente; animato dal fervore della propaganda, agisce tuttavia senza prudenza, sebbene L. di Breme, G.D. Romagnosi e il conte Giovanni Arrivabene gli consiglino di aprir bene gli occhi e di badare a guardarsi la vita;
per la propaganda carbonara scrive al fratello Luigi, impiegato a Genova,e si reca in Piemonte con la scusa di vedere i suoi cari;
più imprudente di lui è tuttavia P. Maroncelli

1820

Eufemio da Messina
(1820*, tragedia*)

6/7 ottobre, P. Maroncelli viene arrestato e condotto nelle Carceri di Santa Margherita dove finisce per confessare le trame settarie in cui è coinvolto;
[Termina così bruscamente la relazione con Teresa [Gegia] Bartolazzi, relazione contrastata dalla famiglia dello scrittore (che non vuole vederlo unito a un'attrice) e sofferta (perché all'inizio non ricambiata).]

mentre gli scritti compromettenti in casa del conte L. Porro Lambertenghi a Milano sono stati distrutti, egli si reca nella villa del conte a Balbianello sul lago di Como; qui rifiuta le offerte del custode che vuole farlo fuggire in Svizzera;

13 ottobre, tornato a Milano, viene arrestato dal commissario Villata e tradotto prima nelle carceri di Santa Margherita;
[Appena arrivato, P. Maroncelli si affretta a comunicargli il suo piano di difesa, quello della Carboneria austrofila, per mezzo di un libro prestatogli dal direttore delle carceri su cui ha scritto con un legnetto affumicato.
Non avendo inchiostro, egli si punge un dito e con il sangue scrive su un pezzetto di carta: «Se tale era il tuo progetto, potevi sì palesarlo; ma perché far credere me consapevole? Se t'è sfuggita una falsa confessione a mio riguardo, ritrattala. Te lo impongo in nome della verità».
Il biglietto, affidato a un detenuto che gira per le celle incaricato di umili servizi, cade nelle mani dell' "attuario" e viene incluso negli atti del processo [dove ancora esiste].
Il conte L. Porro Lambertenghi offre una somma come cauzione perché il suo segretario sia giudicato a piede libero ma inutilmente: va a fargli visita e gli viene concesso parlargli alla presenza di un "attuario".
Qualche tempo dopo, siccome le cose si mettono male anche per lui, fuggirà dalla sua villa del lago di Como dove si trova e si metterà in salvo in Grecia con Santorre di Santarosa; l'Austria lo condannerà in contumacia e l'impiccherà in effige a Milano, dove gli sarà concesso ritornare molti anni dopo.]

Il padre Onorato fa di tutto perché il figlio venga liberato inviando suppliche a Milano e a Vienna ma tutto è inutile.

Per volere di Francesco I viene inviato alle carceri dei Piombi a Venezia per essere giudicato da una commissione apposita creata per giudicare i colpevoli di cospirazione carbonara: ne è l'anima il giudice trentino A. Salvotti.
Dopo gli estenuanti interrogatori, arriva la sua confessione di appartenza alla Carboneria e viene quindi trasferito dalle carceri dei Piombi a quelle dell'isola di San Michele; così pure:
. P. Maroncelli (vent'anni di carcere),
. G.D. Romagnosi (prosciolto dalle accuse, è liberato poco dopo ma rimarrà senza lavoro),
. conte Giovanni Arrivabene,
. cap. Giacomo Alfredo Rezia,
. prof. Adeodato Ressi,
. M. Gioia,
e molti altri.

1822
21 febbraio, al mattino viene condotto davanti alla Commissione; il giudice A. Salvotti legge la sentenza: «Condananto a morte», poi legge il rescritto imperiale: «La pena è commutata in quindici anni di carcere duro» nella fortezza morava dello Spielberg.
Il padre Onorato legge la condanna sulla «Gazzetta di Milano»;
22 febbraio, i condannati si sentono leggere nuovamente la sentenza in pubblico alla presenza del popolo veneziano, tenuto a rispetto da centinaia di guardie e di soldati;
durante la notte lui e P. Maroncelli, bene incatenati, sono messi in gondola e condotti in terra ferma a Fusina dove li attende una carrozza che li trasporta a Udine;
10 aprile, i condannati giungono a Brünn [futura Brno], capitale della Moravia e salgono la collina dello Spielberg;


Durante la prigionia in carcere (durata dal 1820 al 1830) inizia per lui un periodo di profonda riflessione personale che lo porta a riabbracciare la fede cristiana, che aveva abbandonato durante la giovinezza. Un compagno di prigionia, il conte Antonio Fortunato Oroboni lo avvicina nella fede religiosa.

« "E se, per accidente poco sperabile, ritornassimo nella società” – dice il conte Antonio Fortunato Oroboni – “saremmo noi così pusillanimi da non confessare il Vangelo? da prenderci soggezione, se alcuno immaginerà che la prigione abbia indebolito i nostri animi, e che per imbecillità siamo divenuti più fermi nella credenza?"
"Oroboni mio” – gli dice lo scrittore – “la tua dimanda mi svela la tua risposta, e questa è anche la mia. La somma delle viltà è d’esser schiavo de’ giudizii altrui, quando hassi la persuasione che sono falsi. Non credo che tal viltà né tu né io l’avremmo mai. »
(Le mie prigioni, cap. LXX.)

Durante i lunghi dieci anni di prigionia, egli partecipa regolarmente alla messa domenicale. Dal carcere scrive al padre nel 1822: «Tutti i mali mi sono diventati leggeri dacché ho acquistato qui il massimo dei beni, la religione, che il turbine del mondo m'aveva quasi rapito

Egli ringrazia la Provvidenza dedicandole le ultime righe de Le mie prigioni:

« […]
Ah! delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene ed il male che mi sarà serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch'ella sa adoprare a fini degni di sé.»
(Le mie prigioni, cap. XCIX.)


1830
1° agosto, viene graziato e ritorna a Torino;
Ester d'Engaddi (1830, tragedia*) 
Iginia d'Asti (?, tragedia*) 
Erodiade (?, tragedia*) 
[Opere Complete, Capolago 1832, 16°, 2 tomi in uno; contiene *]

1832

Le mie prigioni (1832, criticata dai patrioti per il suo atteggiamento rinunciatario, ma temuta dagli austriaci e dagli austriacanti per i veleni sottili che si nascondono tra le righe)
[Il crudele metodo di governare dell'Austria e le sofferenze inflitte a persone colpevoli di amare la loro patria, per mezzo dell'aureo libretto sono fatti conoscere al mondo intero, con grande disappunto del ministro K.W. Lothar principe di Metternich-Winneburg, che, mentendo per la gola, osa affermare al famoso giornalista cattolico francese Veuillot che in quel libro non c'è «una parola di vero».
Poi avendo il Veuillot osservato che Le mie prigioni «fanno all'Austria più male d'una battaglia perduta» il ministro aggiunge che odia l'autore per «avere fatto d'un libro di preghiere un libro di calunnie».
Il ministro austriaco si adopera moltissimo perché la Chiesa metta all' "Indice" il libro ma non vi riesce; allora cerca di diffondere una particolareggiata smentita a quanto in esso è raccontato, poi però si accorge della meschinità delle argomentazioni e ne impedisce la diffusione, accontentandosi di proibire cheil libro entri nei territori della Monarchia.]


L'idea del libro è nata dal vecchio abate Giordano di Torino ed è stata accarezzata dalla madre de natire ed anche da Cesare Balbo; l'autore era titubante, restio com'è di parlare di sé.

dopo aver declinato l'invito di recarsi a Parigi come istitutore dell'ultimo figlio del re di Francia, Luigi FIlippo, e in procinto di emigrare per l'ostracismo degli intransigenti cattolici che vedono in lui sempre un carbonaro, è presentato ai marchesi di Barolo, Carlo Tancredi Falletti e Giulia Colbert, da Cesare Balbo. Venne assunto con il titolo di bibliotecario ma la sua vera carica è quella di segretario della signora e rimane a Palazzo Barolo fino alla morte.
[La signora ha fondato e mantiene a spese proprie una "sala d'asilo" per le bambine del popolo e ha bisogno di una persona pia e religiosissima come lei, che l'aiuti in tutte le molte e necessarie mansioni.]

Tornato in libertà, fu assunto dai marchesi di Barolo (Torino), Carlo Tancredi Falletti e Giulia Colbert[11], collaborando alle loro attività benefiche e religiose. Nel 1851 Pellico e Giulia Colbert Faletti entrarono nel laicato francescano come terziari.

1833

Gismonda da Mendrisio (1833)

1834

Leoniero da Dertona (1834)
Tommaso Moro (1934)
Corradino (1834, tragedia, fischiata dai liberali)

1837

I doveri dell'uomo (1837, libretto di precetti morali)
Poesie inedite (1837)

1850

il ministro Massimo d'Azeglio lo fa nominare Cavaliere del Merito civile di Savoia;

1851

lui e Giulia Colbert Faletti entrano nel laicato francescano come terziari;

1854
31 gennaio, muore a Torino.

Lettere milanesi (1963, postumo, lettere degli anni 1815-21, da cui si evince che egli non ebbe mai la stoffa del rivoluzionario; la sua opera andrebbe quindi tolta dalla "memorialistica risorgimentale" di F. De Sanctis).

 

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